giovedì 20 settembre 2012

IL CAPOGRUPPO PDL IN REGIONE LAZIO BATTISTONI SI E’ DIMESSO: LA POLVERINI HA FATTO FUORI IL PRIMO

LA GOVERNATRICE RIMANDA OGNI DECISIONE PERSONALE: “IO SONO UNA PERSONA ONESTA, VOGLIO USCIRE DA QUESTA VICENDA A TESTA ALTA”… BERLUSCONI TEME LA SPACCATURA CON GLI EX AN IN VISTA DELLE POLITICHE




Il Pdl passa al regolamento di conti. Mentre la mattinata si chiude con le dimissioni del capogruppo in Regione Francesco Battistoni, una delle richieste del presidente Renata Polverini ancora in bilico tra dimissioni e permanenza in carica, il caso Lazio si trasforma in una partita nazionale che mina il matrimonio tra berlusconiani ed ex An.

E mette a rischio la tenuta del Pdl anche in altre regioni, a cominciare dalla Lombardia, dove è in bilico la permanenza in sella di Roberto Formigoni, travolto dagli scandali e alle prese con il nuovo corso della Lega nord. Per non parlare del voto politico che è già dietro l’angolo.

Battistoni, fresco successore del protagoinista dello scandalo Franco Fiorito alla guida del gruppo Pdl in Regione Lazio, ha gettato la spugna dopo un faccia a faccia con il segretario nazionale Angelino Alfano.

E il presidente?

Dopo aver dettato in consiglio regionale le sue condizioni per moralizzare la vita politica ed evitare il tutti a casa, Renata Polverini non ha ancora preso una decisione, e ha ricevuto da Silvio Berlusconi un pressante invito a restare (“Ho sentito Berlusconi, non l’ho visto”, precisa oggi Polverini).

”Dimissioni? qualcuno parla al posto mio, domani si riunisce il consiglio, poi vediamo”, ha detto ai giornalisti uscendo di casa per andare “dal medico”, ha precisato.

“Ho condizionato il mio impegno al consiglio, non sono disposta a pagare le colpe di altri”.

Domani il consiglio regionale del Lazio voterà sui tagli e sulla riduzione dei costi della politica.

Dopodiché il presidente potrebbe annunciare la decisione che riporterebbe la Regione alle urne.

Intanto promette: “Oggi daremo i dati. Ho dato autorizzazione ai miei uffici di mettere rete e di trasmettere alle agenzie quello che noi abbiamo fatto e quello hanno fatto gli altri”.

”Io sono una persona onesta”, ha continuato Polverini parlando con i giornalisti sotto casa, “non ho mai rubato nulla e respingo scenari raccapriccianti. Di questa classe politica faccio parte, ma ne voglio uscire bene”.

E a chi le chiedeva una candidatura da premier ha risposto: “Ma per carità”.

Il presidente della Regione Lazio ha parlato anche della sua partecipazione all’ormai famosa festa in stile antica Roma, con ancelle in toga e maschere da maiale, organizzata dal consigliere regionale Pdl Carlo De Romanis.

“Sono stata invitata a una festa da un consigliere per festeggiare l’addio al suo vecchio incarico, questo ragazzo credo abbia rapporti con Tajani: le foto mostrano il mio sconcerto e me ne sono andata via subito”.

Sulle condizioni poste per la sua permanenza, Polverini precisa: ”Io non chiedo la testa di nessuno, faccio il presidente di Regione e agisco nel rispetto delle mie prerogative. Il Pdl, partito che sostiene la mia maggioranza, ci ha messo nei guai attraverso persone poco perbene, a dire poco”.



(da “Il Fatto Quotidiano”)
da: http://www.destradipopolo.net/



PDL: UN PARTITO IN FRANTUMI

QUALE MALE MINORE PERSEGUIRE DA QUI AL VOTO?… IL CASO LAZIO E IL TIMORE DI UN EFFETTO DOMINO
Sarebbe azzardato sostenere che il collasso del centrodestra laziale anticipi, in miniatura, la crisi del Pdl nazionale.
Per quanto riguarda la giunta di Renata Polverini, la sorpresa semmai è che non sia implosa prima: esprime una classe dirigente che non è mai apparsa tale per l’incapacità, se non il rifiuto, dei partiti di trovare persone competenti.
Per il movimento di Silvio Berlusconi la situazione è diversa.
Le tensioni affondano nella perdita di identità e di leadership dell’ex premier, che irradia disorientamento e incertezza sull’intera ex maggioranza.
Le stesse voci, magari gonfiate in modo strumentale, di una scissione tra i «puri» di Forza Italia e la componente di An, sono il sintomo di una diaspora latente. L’impressione è che Berlusconi voglia tentare di arginare lo spettacolo indegno offerto dai politici della regione Lazio.
Il vertice convocato ieri sera nella sua abitazione romana sa di manovra in extremis per evitare che l’immagine sfigurata del Pdl locale contagi l’intero partito a pochi mesi dalle elezioni politiche.
L’ombra inevitabile di un’inchiesta della magistratura contribuisce a drammatizzare uno sfondo nel quale sarebbe difficile, questa volta, evocare il fantasma della «giustizia a orologeria».
Eppure, sarà acrobatico scindere e distinguere le responsabilità politiche; e riuscire ad accreditare una pulizia interna tale da cancellare o solo bilanciare quanto sta venendo fuori.
Anche perché si affianca alle inchieste giudiziarie che frugano nel sottobosco della regione Lombardia, cuore storico del potere berlusconiano.
E promette di preparare la riconquista del Campidoglio e della Regione da parte del centrosinistra, di qui alla primavera prossima.
Per questo lo scandalo potrebbe tradursi in ulteriori spinte centrifughe: si inserisce in una fase di enorme sofferenza del Pdl.
Non soltanto, però, tra berlusconiani «puri e duri» ed «ex fascisti», come alcuni settori del centrodestra hanno ricominciato a chiamare gli ex di An.
Lo scontro attraversa lo stesso Pdl semi-orfano della guida del Cavaliere, e la stessa An orfana di Gianfranco Fini.
Dilata il disaccordo sulla sesta candidatura di Berlusconi a palazzo Chigi e sull’atteggiamento da tenere nei confronti del governo di Mario Monti.
Ma finisce per toccare anche i rapporti con gli ex alleati della Lega e con l’Europa.
E riconduce a una domanda sul futuro tuttora in sospeso: quale «male minore» perseguire di qui a un voto che si preannuncia sempre più incerto e nel segno di una probabile sconfitta.
L’ipotesi di serrare le fila, facendo volare qualche straccio, è intrigante quanto problematica.
Non perché il Pdl non ci pensi,ma perché sarà difficile metterla in pratica. L’atteggiamento della nomenklatura coinvolta è quello di chi ha avuto un breve quanto intenso tirocinio su come funziona il sottopotere.
E si prepara a usarlo non per ammettere le proprie responsabilità ma per additare complici: come minimo in termini politici.
E probabilmente senza salvare nessuno, a cominciare dalla Polverini.
L’epilogo delle dimissioni, che pure sarebbe positivo e forse diventerà inevitabile, aprirebbe un altro buco nero nel centrodestra.
Berlusconi vuole evitarle, per prevenire un «effetto domino», ma la governatrice traccheggia, tutta intenta a calcolare le conseguenze di ogni sua mossa. Vuole apparire diversa dai suoi sodali; ed è preoccupata per il suo futuro politico.
Ma, ci sia o no un suo passo indietro, si conferma l’esistenza di un sistema di potere postumo di se stesso.
È il segno che l’immobilismo scelto come tattica da Berlusconi per tenere insieme l’esercito (e l’elettorato) rimasto fedele al suo mito logoro di vincente non basta.
Il blocco si sgretola dall’interno, corroso non dagli scandali ma dal difetto di politica e dall’eccesso di famelico dilettantismo: il malaffare sembra essere solo il prodotto finale, quasi il destino di quel peccato originale.
Può darsi che di fronte al disastro prevalga ancora la logica del bunker, perché nessuno ha la forza e il coraggio per divincolarsi.
In questo caso, si assisterà alla sopravvivenza sempre più precaria e malinconica di equilibri, alleanze e leader che appartengono a un’altra era geologica; e alla crescita di finti anticorpi e antidoti, che in realtà sono parte della crisi e non la sua soluzione.
Massimo Franco
(da “Il Corriere della Sera”)

lunedì 3 settembre 2012

DALLA CHIESA, QUEI CENTO GIORNI DI SOLITUDINE



TRENT’ANNI FA LO STATO LO LASCIO’ SOLO… ERA IL 3 SETTEMBRE 1982 QUANDO IN VIA CANINI A PALERMO VENNERO UCCISI IL GENERALE E SUA MOGLIE



Il generale Carlo Alberto dalla Chiesa venne assassinato in una calda serata sciroccosa. Erano passate da poco le 21 del 3 settembre 1982 e la A112 color crema, guidata dalla giovane moglie, Emanuela Setti Carraro, imboccava la via Isidoro Carini, lasciandosi alle spalle Villa Whitaker - sede della Prefettura - diretta verso il refrigerio di un ristorante all’aperto del golfo di Mondello.Seguiva l’utilitaria l’agente Domenico Russo, alla guida dell’Alfa blu che il generale prefetto non utilizzava, convinto che l’anonimato di una «normale macchinetta» offrisse maggiori garanzie di sicurezza dell’auto blu, immediatamente identificabile.Precauzione inutile, perché la task-force messa in campo da Cosa nostra monitorava da diverse ore i movimenti del bersaglio e forse aveva potuto disporre anche della soffiata partita da Villa Whitaker, da qualcuno che controllava strettamente il generale.Due macchine e due moto rasero al suolo la A112, senza risparmio di violenza e a nulla valse la protezione offerta ad Emanuela dall’abbraccio coraggioso del marito.L’agente Russo fu finito dal killer più sanguinario di quel momento: Giuseppe Pino Greco, detto «Scarpuzzedda».I palermitani stavano a cena, davanti ai televisori.La notizia, tuttavia, non l’ebbero dai telegiornali perché arrivò prima il passaparola.Esplose così rapida da richiamare in pochi minuti una folla di gente in piedi, impietrita in un silenzio irreale, con gli occhi rossi di rabbia.Quando, ormai a notte fatta, fu smontata la scena e i fari, i lampeggiatori delle volanti, si spensero, rimase solo la fragile disperazione di una città, sintetizzata in un cartello che sentenziava: «Qui muore la speranza dei palermitani onesti».Così fu spenta una luce che si era accesa appena cento giorni prima, sull’onda dell’ennesimo eccidio mafioso che aveva colpito il segretario regionale del Pci, Pio La Torre, abbattuto dalla mafia insieme con l’amico, compagno e scorta volontaria, il militante Rosario Di Salvo.La speranza, per la verità, non era nata sotto i migliori auspici.Il generale era stato inviato a Palermo come un’arma spuntata: Roma non aveva voluto dargli gli stessi poteri che gli erano stati dati nella lotta al terrorismo.Prefetto senza poteri speciali: un messaggio rassicurante per la palude palermitana, preoccupata per la presenza di un uomo deciso, carabiniere nel Dna, poco incline alle pantomime sicule dell’indignazione senza conseguenze.E infatti la città gli dimostrò immediatamente tutta la propria avversione.La città del potere, ovviamente.Perché i cittadini, invece, riponevano molte aspettative sulle capacità del prefetto.Carlo Alberto dalla Chiesa arrivò a Palermo in incognito. Ignorò l’auto che l’aspettava in aeroporto, montò su un taxi ed arrivò in Prefettura «pieno» delle notizie e degli umori strappati al tassista loquace.Non si fidava, il generale, e con quella «presentazione» intendeva mettere subito le cose in chiaro.Fu criticato, ovviamente, per quella scelta.Non gli furono risparmiate ironie e commenti, pesanti allusioni sulla differenza di età con la giovane seconda moglie: insomma tutto il repertorio della maldicenza e della mafiosità locale. Persino il sindaco, l’avvocato Nello Martellucci, uomo del gruppo di potere dominante (Lima, Ciancimino, Gioia), si rifiutò di portargli il saluto con la pretestuosa motivazione che doveva essere il generale a «presentarsi» al padrone di casa.E come lo sbeffeggiavano quando andava nelle scuole a parlare di legalità coi ragazzi o quando faceva sequestrare agli angoli delle strade il pane prodotto e venduto abusivamente. Solo Leonardo Sciascia capì il valore di quel gesto e spiegò che non si poteva battere la mafia fino a quando i mercati di Palermo sarebbero rimasti repubbliche indipendenti.Come a dire c’è Cosa nostra ma anche qualcosa di più subdolo, per esempio la mafiosità.La solitudine del generale, in quei cento giorni palermitani, è stata ricordata più volte dal figlio, Nando, che non ha mai modificato il suo giudizio duro sulla politica che isolò il padre (giudizio riproposto oggi a Luciano Mirone, autore di «A Palermo per morire»).E quando si parla dell’isolamento di Dalla Chiesa il discorso non può non cadere sul rapporto con Giulio Andreotti, a cui il generale, in partenza - «disarmato» per Palermo - anticipa che non avrà «nessun riguardo per la corrente Dc più inquinata» (quella di Salvo Lima, di Gioia, di Ciancimino e dei cugini Ignazio e Nino Salvo).Li conosceva bene, il prefetto, quei personaggi.Aveva redatto un rapporto destinato alla Commissione antimafia, quando era comandante della Legione a Palermo.Ma quell’analisi - ricorda il figlio Nando - era arrivata in Parlamento molto manipolata, addirittura coi nomi «sbianchettati».Qual era lo stato d’animo del generale e della giovane moglie, pochi giorni prima dell’eccidio? Bastano le parole dette al telefono alla madre da Emanuela: «Non posso venire a Milano, non voglio lasciare Carlo nemmeno per un momento, chi lo salverebbe? Siamo dimenticati, mamma, da chi ci dovrebbe tutelare».Gli assassini del generale, della moglie e dell’agente sono stati condannati. Ma si tratta dei macellai.Mancano le menti raffinatissime, per dirla con le parole di Giovanni Falcone.Chi ha tradito Dalla Chiesa?Quale conto hanno fatto pagare al generale sabaudo mandato nella terra degli infedeli? Persino la Chiesa siciliana, solitamente cauta, nel giorno dei funerali usò parole di fuoco e puntò il dito sul potere ignavo: «Mentre a Roma si discute sul da farsi, Sagunto viene espugnata», gridò il cardinal Pappalardo dal sagrato della basilica di San Domenico.Fu solo mafia?Oppure il «conto» inglobava anche i segreti del sequestro Moro e di quel grumo conseguente, conosciuto alle cronache come l’affaire del giornalista Mino Pecorelli?Certo, dopo trent’anni è difficile andare a rovistare nei pozzi neri, forse andava fatto subito. Ma una coincidenza va sottolineata, al di là di ciò che hanno raccolto le indagini: Moro, Pecorelli e Dalla Chiesa sono vicende caratterizzate da una non frequente «sinergia» tra mafia e terrorismo.La mafia siciliana ha ucciso (chissà perché?) il giornalista molto intimo dei Servizi, è stata coinvolta nel tentativo di salvare Aldo Moro prigioniero delle Br e ha pianificato ed eseguito l’assassinio del generale.Come una vera agenzia del crimine al servizio di altri.
Francesco La Licata




venerdì 13 luglio 2012

Al paese non serve una nuova destra, ma una nuova politica



Un suggerimento agli stucchevoli nostalgici di quadri organizzativi e direttive in vecchio stile Pcus o Forza Italia.



A chi ancora si arrovella le cervella nell’ingabbiare aprioristicamente concetti e idee all’interno di contenitori improduttivi e con la data di scadenza passata ormai da un pezzo.



Al paese non serve una nuova destra, né tantomeno la si può semplicisticamente individuare in quella che ha mancato tutti gli obiettivi possibili e immaginabili, rivoluzione liberale in primis.
All’Italia serve una politica nuova, che faccia volentieri a meno degli apparati che l’hanno appesantita come una balena spiaggiata, che dica “no, grazie” alle ricette farlocche su meno tasse per tutti, che hanno causato i dolorosi provvedimenti attuati oggi dal governo.



Che rifiuti uno stato asservito ai desiderata del feudatario di turno, che si indigni quando a dettare l’agenda è la pancia di una piazza di ebeti militanti anziché la logica programmazione di ampio respiro.



Il berlusconismo, sotto le spoglie di quella destra camuffata da polo moderato, si è presentato a cittadini e imprenditori, inducendoli a credere in un cambiamento effimero. Per poi tramutarsi non solo in un nulla di fatto, ma in un danno epocale. Dove sono le riforme promesse, i nuovi sbocchi occupazionali o le liberalizzazioni di chi ha invece monopolizzato l’etere? Né la rivoluzione liberale, né qualcos’altro di buono, dunque.
Da destra, da questa destra italiana-berlusconiana non si può oggettivamente aspettarsi uno scatto culturale, politico e attuativo. Semplicemente perché ha fallito a più riprese l’evoluzione contenutistica proposta.
E allora la strada deberlusconizzata da seguire non può che essere quella di un modello liberale e solidale di patriottismo costituzionale, che salvi il capitalismo dai capitalisti come osservato da Andrea Romano sul Foglio. Che parli alla gente non alle pance, che rompa il monopolio di contenitori obsoleti a cui una pletora di burocrati ha ammanettato per troppo tempo le sorti di una nazione intera.



di Francesco De Palo



sabato 30 giugno 2012

La Merkel “culona” e le tristi rivalse dei giornali



Dunque l’Italia, intesa come squadra di calcio, mercoledì sera è stata davvero grande. Raramente si è vista una prestazione tanto felice: non solo una precisione tattica, una brillantezza fisica, una superiorità tecnica così evidenti da legittimare un risultato ben più ampio (un 3 a 0 ci stava tutto), ma anche un atteggiamento in campo e fuori assolutamente encomiabile: non un’entrata cattiva, non uno scatto di nervi, il massimo rispetto dell’avversario. Bravi tutti e menzione particolare per Prandelli che, da maestro di calcio quale sempre ha mostrato di essere, ha insegnato a tutti come si gioca e come ci si comporta. Bellissima serata davvero.
Ma come sempre le cose belle durano poco, non l’espace d’un matin, come dice il poeta, ma quello di una sera. Finita la partita, infatti, ci hanno pensato altri a distruggere tutto quanto di buono calciatori e allenatore avevano costruito, dando il via all’assurdo teatrino di una vittoria sportiva che diventa politica e facendo quello che gli atleti in campo non avevano neppure lontanamente pensato: sbeffeggiare l’avversario. Ha cominciato Petrucci, il presidente del Coni, a evocare senza alcuna ragione lo spread; poi è arrivato, a chiarire meglio che strada si stava imboccando, il promo del programma di Vespa.
Ma a fare la parte del leone, il mattino dopo, ci hanno pensato i giornali fiancheggiatori del centrodestra berlusconiano, i soliti geniali titolisti del Tempo, di Libero, fino all’inarrivabile Giornale con il suo elegantissimo saluto alla Merkel: «ciao ciao culona». Che tristezza! Davanti a queste parole mi sono tornate alla mente certe situazioni degli anni Cinquanta e Sessanta, quando l’Italia ancora arrancava tra varie difficoltà e arretratezze e una vittoria del Napoli di Achille Lauro sul Milan era salutata coma una rivincita della gente del sud povero e sfruttato sul nord sviluppato e sfruttatore e una trasferta vittoriosa della nazionale in Svizzera era vissuta come un riscatto delle sofferenze dei nostri emigranti.
Ecco, grazie a queste acutissime letture e ai loro autori siamo tornati lì, a quei tempi, a quelle rivalse, a certe espressioni con cui certuni si vantano di interpretare il sentimento popolare e che invece sono solo plebee, di un popolo “straccione”, di “un volgo disperso che nome non ha” e che piace solo ai populisti. Dicono alcuni che dobbiamo pretendere dall’Europa e in particolare dalla Germania di non essere guardati dall’alto in basso. Ma forse dovremmo prima chiedere a qualcuno a casa nostra di non farci scendere così in basso.






domenica 24 giugno 2012

RENZI , “NOI SIAMO LA MAGGIORANZA NEL PD”: FORSE IL PDL HA FINAMENTE TROVATO IL LEADER ADATTO



IL SINDACO DI FIRENZE RIGHEIRA LE CANTA A D’ALEMA, VELTRONI, BINDI E MARINI : “L’ESTATE STA FINENDO, I MANDATI NO, ORA BASTA ,TOCCA A NOI” (CIOE’ A LUI)



È partita la sfida del «rottamatore» Matteo Renzi a Bersani.In contemporanea con la riunione nazionale dei segretari di circolo a Roma, il sindaco di Firenze ha dato il via al nuovo Big bang, chiamando a raccolta i suoi Mille, amministratori e sindaci da tutta Italia, in attesa della «vera» convention per le primarie che Renzi ha già annunciato si terrà in autunno



IL SINDACO: «PIACERE A DESTRA NON E’ UN DELITTO» Dal palco il sindaco Matteo Renzi lancia un messaggio a Bersani: «Noi non usciremo dalla dinamica della vecchia politica, se non uscendo da qui e dicendo non candidiamo un io ma candidiamo un noi. Se ci saranno primarie, se saranno aperte e libere e se uno di noi ci sarà, come credo, se avremo perso noi dal giorno dopo saremo al fianco di chi le avrà vinte». Continua: «Mi dicono: ma tu piaci a quelli di centrodestra? Pescare tra quelli di là è l’unica condizione per non riperdere le elezioni. Piacere all’altra parte politica non è un delitto».E poi fa partire la canzone dei Righeira: «L’estate sta finendo, il loro mandato no: c’è gente come D’Alema, Veltroni, Rosi (Bindi, ndr), Marini: avete fatto molto per il paese, per l’Italia, per il partito. Adesso anche basta», ha detto Renzi, riferendosi ai loro mandati in Parlamento, mentre lo Statuto del Pd consente «al massimo tre mandati».E alla domanda: come si sente nel Pd, risponde: «A casa mia. Ma ci sentiamo maggioranza nel Pd».



GLI AMMINISTRATORI SUL PALCO A Firenze sono arrivati oltre mille amministratori accreditati, in oltre 300 hanno pronta la foto «simbolo» chiesta dal sindaco nella sua eNews per introdurre i loro interventi: ne solo previsti solo 80 al massimo, di 5 minuti.A moderare gli interventi ci sono Giorgio Gori, Matteo Richetti e Davide Faraone.Il primo a intervenire è il sindaco di Finale Emilia Fernando Ferioli: «Dobbiamo aprire un lungo capitolo contro la burocrazia che blocca i Comuni», dice con un video messaggio inviato alla convention.«Questa burocrazia ci paralizza - ha insistito - eppure sono i comuni, siamo noi, sul territorio, a conoscere le tutte le situazioni, le emergenze, le priorità. Dobbiamo dire basta».«Con il terremoto - ha aggiunto Ferioli - abbiamo perso in mezz’ora 1000 anni di civiltà; ma la solidarietà dei Comuni è stata ed è ancora fortissima.



A ROMA I CIRCOLI DEL PD In contemporanea, a Roma, si tiene l’assemblea dei circoli Pd.Un «caso» che ha fatto ironizzare i rottamatori, «è la terza volta che accade»: ma sono comunque contenti per la risposta anche dalla Toscana, persino da Grosseto, terra «bersaniana» del Pd, partirà un pullman.Mentre pare che quello organizzato dai democrat per Roma, sia stato annullato. Motivo: poche prenotazioni.E dopo il «dossier» al veleno del Pdl su Matteo Renzi, smentito dallo stesso portavoce di Berlusconi, Paolo Bonaiuti, un altro attacco arriva al sindaco, alla vigilia del nuovo Big Bang: questa volta dal Pd.«Renzi è un ex portaborse, diventato poi sindaco di Firenze per miracolo, per le divisioni interne al Pd fiorentino. Una figura minoritaria nel partito, ripete a pappagallo alcune ricette della destra, è fuori tempo massimo. Ma non credo andrebbe con Berlusconi, è lontano anche dal suo populismo».



IL FLASH MOB FUORI DAL PALA CONGRESSI Un flash mob, in pratica un’ora di concerto di circa 60 musicisti dell’orchestra e del coro del Maggio musicale fiorentino, davanti al Palazzo dei Congressi di Firenze, prima dell’inizio di «Big Bang. Italia Obiettivo Comune».Gli orchestrali, vestiti come quando vanno sul palco, e con dello scotch nero sulla bocca, hanno eseguito musiche di Verdi, Mozart, Puccini, Ravel e l’Inno di Mameli; poi, hanno lasciato volare in cielo palloncini neri.Durante il flash mob gli orchestrali hanno scandito slogan come ‘Renzi bluff’ e ‘Colombo a casà, riferendosi alla sovrintendete del Teatro Francesca Colombo.Anche sui palloncini sono state scritte frasi contro sindaco e sovrintendete. L’iniziativa è stata organizzata da Fials e Uil per denunciare la situazione del Teatro e, hanno spiegato i manifestanti, «per dire «no» alla cassa integrazione». «Quello che sta accadendo in Teatro - ha detto Marco Salvatori della Fials - è il completo fallimento della politica del sindaco Matteo Renzi e del presidente della Regione Enrico Rossi».



LO SCONTRO CON FASSINA La vigilia del Big Bang si infiamma dopo le dichiarazioni di Stefano Fassina.Il responsabile economia del Pd attacca il sindaco di Firenze parlando a La Zanzara su Radio 24: «Renzi? Una figura minoritaria nel partito, ripete a pappagallo alcune ricette della destra, è fuori tempo massimo. Ma non credo andrebbe con Berlusconi, è lontano anche dal suo populismo».E scende sul personale: «Io a differenza sua - dice ancora Fassina- ho avuto una lunga esperienza professionale fuori dalla politica. Lui è un ex portaborse, diventato poi sindaco di Firenze per miracolo, per le divisioni interne al Pd fiorentino».Renzi risponde non prendendolo troppo in considerazione. Prima lo irride di fronte ai 300 già arrivati ieri all’incontro organizzativo a piazza Adua: «Vi leggo una dichiarazione di Fassina, che non è la moglie di Fassino».Poi, attacca: «Io mi fido di Bersani, molto meno di chi gli sta intorno».E su Twitter prosegue: «A chi insulta rispondiamo con un sorriso».
(da “Il Corriere Fiorentino”)



domenica 17 giugno 2012

Baldassarri al QN: “manca la volontà politica (anche dei “tecnici”) di tagliare la spesa pubblica”



Dal sito di QN – Roma, 12 giugno 2012 – Nel 1981 come economista della commissione sulla spesa pubblica nominata da Andreatta, oggi come presidente della commissione Finanze del Senato: è da una vita che Mario Baldassarri si cimenta col taglio della spesa pubblica e da una vita assiste impotente alle retromarce della politica.
Stavolta, però, al governo ci sono i tecnici…«Con tutta la stima per i tecnici, anche i sassi ormai sanno dove e cosa tagliare: quel che manca è la volontà politica».
Come lo spiega?«Ho due spiegazioni. La prima: ci sono 500mila italiani, trasversali, che vivono di politica e sguazzano in quei 60 miliardi l’anno che secondo la Corte dei Conti rappresentano il costo della corruzione».
E con questo?«Tagliare la spesa pubblica significa tagliare l’acquisto di beni e servizi, i fondi perduti e le municipalizzate, cioè far saltare un sistema che torna comodo a molti».
La seconda spiegazione?«Un caso personale. Tre anni fa presentai un emendamento alla finanziaria per trasformare i fondi perduti in credito di imposta scongiurando così il fenomeno delle imprese fantasma e le connesse truffe ai danni dello Stato».
ottima idea, fu votato?«OtNo. Un alto dirigente del ministero dello Sviluppo telefonò a un certo numero di colleghi senatori per metterli in guardia: ‘Se passa l’emendamento, non vi potrò più far avere neanche un euro…’».
Ma ora al governo c’è Monti e il commissario Bondi non si lascerà intimidire. O no?«Mah, guardi, l’intimidazione è già nei fatti. Per questo ho rifiutato di votare il decreto che costituiva un comitato interministeriale e nominava un commissario. Ma dico, scherziamo? Se volete tagliare, fatelo!».
Pensa che non vogliano?«Le faccio un altro esempio. In marzo, con 25 senatori abbiamo messo a punto un provvedimento per tagliare gli acquisti, l’Irpef, i fondi perduti e l’Irap. Sa cosa mi hanno sussurrato dal governo?».
No, dica lei…«‘Va bene, ma attento a non creare problemi alla maggioranza…’».
A frenare sono i partiti e il governo ne teme la reazione?«È l’idea che mi sono fatto. Le racconto come s’è conclusa quella vicenda?».
Prego.«Qualcuno fece una telefonata, e alle 15,25, cinque minuti prima che la riunione della commissione terminasse, arrivarono due mail: la Ragioneria generale dello Stato dava parere contrario sostenendo che il provvedimento confliggesse con l’articolo 81 della Costituzione e così fece anche, usando le stesse parole, l’ufficio legislativo del ministero dell’Economia. Era una falsità assoluta, ma servì ad evitare il voto».
A frenare, dunque, sono anche i ‘tecnici’ al servizio dello Stato.«Sì, ma anche quelli delle regioni, dei comuni, delle Asl… Interessi intrecciati e spirito di cosca».
Anche stavolta, allora, non si farà nulla?«Stavolta siamo sull’orlo del burrone e con poco tempo a disposizione. Abbiamo un mese per salvare l’Italia, tre mesi per salvare l’Europa e sei mesi per tentare di ricucire la società con la politica grazie a una nuova legge elettorale. Monti se ne infischi dei partiti e dei tecnici al loro servizio, e disponga il taglio non di 4 ma di almeno 40 miliardi di spesa pubblica».

venerdì 8 giugno 2012

Quella parola non la capisce più nessuno



di Filippo Rossi
Gianfranco Fini svolta a destra. Gli esegeti, più o meno interessati, del finismo hanno commentato così quel che ha deciso ieri il leader di Futuro e libertà. Tralasciando le tante altre cose dette (dall’annuncio di una assemblea dei mille con cui aprirsi alla società civile fino alla necessità di parlare di “contenuti più che di contenitori”) e concentrandosi sul ritorno di quella parola che ha scatenato l’euforia degli “identitari” e disorientato i molti che in Fli avevano visto (e vedono tuttora) un ambizioso tentativo di superare e riscrivere le categorie politiche.
Intendiamoci: il problema non è contenutistico, né lessicale. Chi ha letto quel che è stato scritto in questi ultimi anni, su Farefuturo webmagazine e sul Futurista, sa bene quanto e come abbiamo provato a delineare la “nostra” destra, una destra che fosse lontana dal becerume leghista e dal populismo berlusconiano, dalla xenofobia e dall’omofobia, dal nostalgismo e dalle tendenze minoritarie e autoghettizzanti.
Il problema, come sempre, è il contesto. E in una fase come questa, in cui tutto si sta destrutturando e immense praterie politiche si aprono allo sguardo, legarsi a una connotazione “geografica” così precisa - per quanto poi “personalizzabile” nei contenuti - rischia di essere castrante. Rischia di far apparire un movimento che doveva essere l’avanguardia della Terza Repubblica come l’ultima retroguardia della Seconda. E rischia anche di rendere vano lo sforzo di chi volesse provare a spiegare che dietro quell’etichetta non ci sono Storace e Santanchè, Cosentino e Dell’Utri, il bunga bunga e Giovanardi, ma ci sono l’europeismo e i diritti civili, il riformismo e l’integrazione, la legalità e la solidarietà.
È come se davanti alla più grande battaglia politica degli ultimi decenni ci si armasse non di una spada ma di un pezzo di latta, pescato per di più da una discarica. E le affermazioni di chi, in nome di quella parola, apre uno spiraglio al dialogo con il delfino di Berlusconi, non fanno che confermare questi timori.



sabato 2 giugno 2012

BASTA ESAGERAZIONI, L’EMILIA NON E’ SCOMPARSA



TUTTO VIENE ENFATIZZATO A DISMISURA, A PARTIRE DALLA PAURA DELLA GENTE



Nelle ultime due settimane in Emilia Romagna ci sono stati 24 morti e danni per svariati miliardi di euro; gli sfollati sono quindicimila.Bastano queste cifre per dire che una situazione è grave e degna di attenzione da parte di tutti gli italiani? Evidentemente no, non basta.Così sono giorni che in tv, alla radio e sui giornali si sente parlare di «interi paesi cancellati dalle carte geografiche», o più sobriamente «rasi al suolo».Ho sentito dire che Cavezzo, dov’ero appena stato, «non esiste più».Ci sono titoli sui siti web - anche, ahimè, dei grandi giornali - che parlano di migliaia di emiliani che «soffrono la fame», di «assalti di sciacalli alle case danneggiate».Mi domando se chi dice e scrive queste cose sia stato davvero in questi giorni a Mirandola, Cavezzo, Rovereto sul Secchia, Medolla, Carpi.Paesi che hanno subito danni ingentissimi e molti lutti: ma che esistono ancora.Paesi popolati da persone in difficoltà: ma non ridotte alla fame.Paesi in cui i capannoni crollati sono per fortuna una piccolissima percentuale, non la norma.Paesi in cui le abitazioni private hanno tenuto, grazie al cielo: anzi, grazie agli emiliani che le hanno costruite meglio che altrove.C’è stato un terremoto, e basterebbe usare questa parola, terremoto: ce ne sono molte altre che incutono più terrore?E invece no: si parla di inferno, di un mondo spazzato via, di un’intera regione in ginocchio.Non è così: provate a girare per tutta l’area, da Modena fino su ai paesi dell’epicentro, e vedrete un film che non è quello che viene raccontato.Un film drammatico, certo. Ma perché dire e scrivere che è come il Friuli, l’Irpinia, L’Aquila? In Friuli ci furono mille morti, centomila sfollati, 18.000 case completamente distrutte, 75.000 gravemente danneggiate.In Irpinia tremila morti, 280.000 sfollati, 362.000 abitazioni distrutte o rese inagibili. L’Aquila è ancora oggi, quella sì, una città in ginocchio.L’Emilia no: la gente che vi abita ha paura, e questo è comprensibile, ma le grandi città sono intatte, il 95 per cento dei paesi pure, eppure l’altra sera in tv abbiamo sentito parlare (testuale) di «una regione distrutta».Tutto viene enfatizzato a dismisura, a partire dalla paura della gente, che già ha buoni motivi per avere paura.L’altra notte l’ho trascorsa in piedi fra la gente in tenda.Una notte certamente disagevole, soprattutto per la preoccupazione per il futuro. Ma non ho visto alcuna scena di panico. La mattina alle nove accendo la radio e sento: «Notte di terrore nelle tendopoli per sessanta nuove scosse». Che ci sono state, ma non tali da essere percepite.Non si tratta di sminuire la gravità di quello che è accaduto, ma di evitare che ai danni del terremoto si aggiungano quelli di un’informazione drogata.L’altra sera parlavo con Michele de Pascale, assessore al Turismo del Comune di Cervia. Mi diceva di non capire la contraddizione: «Stiamo accogliendo nei nostri alberghi gli sfollati perché qui da noi sono al sicuro. Poi riceviamo disdette per quest’estate: i clienti hanno sentito in tv che l’Emilia è distrutta. L’altro giorno un albergatore mi ha detto che lo hanno chiamato dalla Germania per annullare la prenotazione e hanno chiesto: ma siete ancora vivi?».Domande alle quali ne aggiungo una diretta umilmente alla categoria di cui faccio parte: vogliamo davvero aiutare gli emiliani a ripartire?Atteniamoci ai fatti.Sono già abbastanza gravi che non c’è bisogno di metterci il carico.
Michele Brambilla(da “La Stampa”)



martedì 29 maggio 2012

SALLUSTI E CICCHITTO LITIGANO SUL “FATTO”

ALL’EDITORIALE DEL DIRETTORE DE “IL GIORNALE” REPLICA MEZZO PDL: “UNA TESI CHE FA RIDERE I POLLI”

Nel partito berlusconiano dell’amore è il momento della vendetta travestita da surrealtà, se non sublime metafisica della Casta.
Ieri il direttore del “Giornale” Alessandro Sallusti ha fatto a pezzi Fabrizio Cicchitto, già socialista e piduista, colpevole di andare a braccetto con Marco Travaglio e il “Fatto”.
In realtà, a Sallusti sono saltati i nervi la settimana scorsa quando ha letto uno sfogo telefonico rubato a Cicchitto sull’agonia del Pdl: “Non ci faremo sciogliere da Sallusti e dalla sua Ninfa Egeria” alias Daniela Santanchè, pasionaria del movimentismo di centrodestra.
Così il direttore del “Giornale” ha deciso di rispondere con un editoriale sulle “trappole della sinistra”.
Forse gli sarà andato stretto il paragone con Numa Pompilio, il re di Roma cui la Ninfa Egeria dettava le riforme.
Vuoi vedere che la nuova Ninfa detta gli articoli a Pompilio Sallusti? Del resto i due formano un’affiatata coppia che con affetto Vittorio Feltri appellò come i nuovi Rosa e Olindo.
L’attacco di Sallusti a Cicchitto prende le mosse dal “complesso di inferiorità culturale” del centrodestra nei confronti dei quotidiani di sinistra, “per cui se non esisti su quei giornali non esisti in assoluto”.
Ed ecco il colpo di genio pescato dal repertorio della cieca e furiosa vendetta: “Quel genio di Cicchitto va a braccetto con quelli de Il Fatto, che nella migliore delle ipotesi lo considerano un piduista e che alla prima occasione gli faranno un servizietto barba e capelli”.
Poi il capo d’accusa: “I nostri eroi (tra cui Cicchitto, ndr) tremano per i deliri di Scalfari, si bevono per vere le analisi dei tromboni sul Corriere, ma quotidianamente insultano i pochi giornali con loro (fin troppo) comprensivi per i i quali vanno a piangere tutti i giorni da papà perché licenzi questo direttore o faccia cacciare quel giornalista”.
Finale: Noi “raccontiamo la verità, checché ne pensino Cicchitto e il suo amico Travaglio”.
La risposta del capogruppo del Pdl alla Camera è stata all’insegna della fantasia al potere, un classico del lessico di Cicchitto: “Caro Sallusti, la fantasia è una dote dei romanzieri, non dei giornalisti, che comunque, anche nella polemica, dovrebbero fare i conti con la realtà. Infatti solo uno sforzo sbrigliato di fantasia può portare a dire che vado ‘a braccetto’ con quelli del Fatto e che Travaglio è un mio ‘amico’”.
Cicchitto fa chiarezza sulla fantasia di Sallusti e arriva al nodo della questione, compresa la minaccia di fargli barba e capelli da parte nostra: “Già da tempo tutto ciò è in atto nei miei confronti da parte di quel quotidiano che recentemente è arrivato anche a riportare in modo forzato e parziale brani di una mia telefonata privata. La cosa ovviamente non mi sorprende. Quello che è sorprendente è invece ciò che su questo terreno sostiene il Giornale che, avendo deciso di attaccarmi, casomai potrebbe scegliere altri argomenti: ad esempio che sono da rottamare come tutti i professionisti della vecchia politica, che mi permetto di mantenere una autonomia di giudizio nei confronti di tutti, anche nei confronti dello stesso Giornale; ma affermare che vado d’accordo con quelli del Fatto fa solo ridere i polli”.
Siamo d’accordo. Polli ma anche galli e galline.
In difesa di Cicchitto sono accorsi vari esponenti del Pdl che si sono detti sgomenti o sbigottiti o sorpresi della vendetta di Pompilio Sallusti.
Da Giro a Osvaldo Napoli passando per l’ex ministro Raffaele Fitto.
Tutti contro Sallusti.
A conferma che nel Pdl è in corso una guerra tra quelli che vorrebbero ancora Berlusconi sul ponte di comando (da king-maker ma anche da candidato premier) e chi invece pensa che lo scalpo del Cavaliere sia la garanzia migliore per attirare i famigerati moderati insieme con Casini e Montezemolo.
Tra i primi ci sono Sallusti e la Santanché.
Per i secondi vale il caso di Cicchitto, che un mese fa a Orvieto parlò di carisma appannato del Capo.
A proposito, nella telefonata rubata al capogruppo, le liste civiche nazionali che la Santanché vorrebbe fare sono definite come “le liste della Repubblica di Salò e delle mignotte”.
Testuale.
Lo garantiamo a Sallusti.

Fabrizio d’Esposito
(da “Il Fatto Quotidiano“)

http://www.destradipopolo.net/

sabato 26 maggio 2012

I ladri galantuomini



Va di moda la giustizia fai da te. Non c’è più bisogno di “attendere con fiducia le sentenze”, per poi gabellare le prescrizioni per assoluzioni. Ora le assoluzioni le distribuiscono direttamente i giornalisti e i politici. Prendete Piero Sansonetti: da un po’ di tempo fa la parte di “quello di sinistra che ce l’ha coi giudici”, molto più richiesto nei salotti televisivi di “quello di destra che ce l’ha coi giudici”. Un po’ come il pizzaiolo che fa la pizza alle fragole. Il sottotesto dice: “Io sono di sinistra, dunque non ce l’ho coi giudici perché me l’ha chiesto Berlusconi, ma perché ho ragione”.
L’altra sera, a Servizio Pubblico su mafia e politica, il popolare Samsonite annuncia che il processo a Ottaviano Del Turco, arrestato quand’era governatore d’Abruzzo, è finito nel nulla: e ora chi risarcirà quel sant’uomo e una Regione decapitata dai giudici? Faccio sommessamente notare che Del Turco e i suoi coimputati, arrestati da un gip su richiesta di tre pm, decisione confermata da vari giudici del Riesame e della Cassazione, e rinviati a giudizio da un gup, sono tuttora sotto processo al Tribunale di Pescara e nessuna sentenza, a parte quella di Sansonetti e di altri difensori d’ufficio a mezzo stampa e tv, è stata ancora emessa. Allora Samsonite ribatte che il processo è durato troppo: dev’essere per questo che lui ha deciso di anticipare l’assoluzione.
Nelle stesse ore la Camera votava la legge-truffa sui soldi pubblici ai partiti, pomposamente presentata dalla stampa di regime come “la riforma che dimezza i rimborsi elettorali”: in realtà, a conti fatti, i partiti maggiori si tagliano un misero 30%; espropriano del potere di controllo l’unico organismo deputato a esercitarlo: la Corte dei Conti; regalano sgravi fiscali favolosi ai finanziatori privati (legalizzando le tangenti preventive, come osserva Curzio Maltese); e negano i rimborsi elettorali ai movimenti e alle liste civiche come 5 Stelle (che peraltro non li vuole) con la scusa che non hanno uno statuto (e pazienza se gli statuti dei partiti sono incostituzionali perché li equiparano ad associazioni private).
La sublime porcata poteva contenere un paio di norme di minima decenza: la proposta Idv di revocare i rimborsi ai partiti che candidano condannati; e quella del pd Fontanelli per obbligare i tesorieri a dichiarare non solo la propria posizione patrimoniale, ma anche quella dei congiunti di primo e secondo grado. Emendamenti puntualmente respinti. Contro quello pidino s’è scatenato Ugo Sposetti, tesoriere dei Ds (che non esistono più ma hanno ancora incredibilmente un tesoriere, dunque un tesoro): l’ha definito “un tentativo di criminalizzare la figura del tesoriere” (come se non bastassero i Lusi, i Naro e i Belsito). Poi, con aria ispirata e posa ciceroniana, s’è lanciato in una commossa difesa di tutti i tesorieri presenti, futuri, ma soprattutto passati: “Voto contro in memoria di galantuomini come Severino Citaristi, Renato Pollini e Marcello Stefanini, sempre assolti dopo lunghe sofferenze”.
Per la cronaca, il galantuomo Citaristi, tesoriere Dc, ricevette 74 avvisi di garanzia e fu condannato definitivamente a un totale di 16 anni di carcere e 8 miliardi di lire di multe per corruzione e finanziamento illecito, oltre a risultare beneficiario di un conto svizzero intestato a un parente e gestito dal faccendiere Pacini Battaglia. Quanto ai galantuomini Pollini e Stefanini, ultimi tesorieri del Pci, uscirono dalle inchieste in parte per assoluzione, in parte per prescrizione, in parte per amnistia, mentre il loro braccio operativo Greganti veniva condannato a 3 anni e 6 mesi per corruzione e finanziamento illecito al partito. Però Sposetti li ha assolti tutti, e tanto basta. La sua catilinaria è stata accolta con vivi applausi da tutto l’emiciclo, specialmente dai banchi del Pdl e dell’Udc. Telegrammi di felicitazioni da Arsenio Lupin e Pietro Gambadilegno. La Banda Bassotti ha inviato una tessera onoraria.



di Marco Travaglio



venerdì 18 maggio 2012

LEGA: AL TROTA RIMBORSI PER “CONTO STUDIO”; BELSITO AVEVA CARTA BIANCA DAL 2007



E’ QUANTO EMERGE DAGLI ATTI DELL’INCHIESTA… BELSITO AVREBBE INVESTITO ALMENO 9 MILIONI DI EURO IN VALUTA ESTERA NEL 2011 E FORSE POTEVA CONTARE SULLA COMPLICITA’ DI UN FUNZIONARIO DELLA BANCA ALETTI, POI ALLONTANATO



L’ex tesoriere della Lega Francesco Belsito, indagato da tre procure e da ieri a Milano anche in concorso con Umberto Bossi e i figli Renzo e Riccardo, aveva carta bianca della Banca Aletti a Genova dall’aprile 2007.E’ quanto emerge dagli atti dell’inchiesta condotta dalla procura lombarda sulla contabilità del Carroccio.Dalla documentazione emerge che “Belsito ha operato seguendo la medesima prassi del suo predecessore per il quale non esisteva un documento della Lega che ne limitasse i poteri”.In banca Aletti vi era una delega a favore dell’amministratore poi espulso a firma onorevole Maurizio Balocchi del 16 aprile 2007 e una procura generale oltre ad una procura su deposito titoli del 7 agosto 2008, riferita sia a Balocchi che a Belsito con firme disgiunte.Per questo banca Aletti in passato non ha insistito a richiedere la formalizzazione dei limiti e dei poteri.“Di fatto Belsito – si legge ancora nella documentazione – ha svolto una operatività senza limiti di importo avvalendosi di una sua autocertificazione dell’aprile 2011 nella quale si dice che il segretario amministrativo ha ad oggi poteri senza limite di importo per l’apertura e la gestione di conti correnti e deposito titoli bancari e postali nonché richieste di fidejussioni sul territorio dell’Unione Europea”.Già nel 2009 banca Aletti aveva chiesto alla Lega la delega rilasciata al segretario amministrativo.Ma solo il 9 marzo 2012 Belsito presentò alla banca un estratto notarile del febbraio 2010 di nomina del signor Belsito stesso al quale era concessa la facoltà di firma disgiunta per ogni operazione di spesa che non superi l’importo di 50 mila euro.In piena crisi dell’euro l’ex buttafuori genovese decise di diversificare i suoi investimenti per il partito e non farli più in euro, bensì in valuta straniera.“A partire dal novembre-dicembre 2011 – si legge in uno dei documenti relativi alla conti della Lega – in piena crisi della zona euro, Belsito ha drasticamente cambiato le modalità di investimento alleggerendo la componente euro per circa 9 milioni, verso investimenti in certificati di deposito a breve scadenza in dollari australiani, corone norvegesi e dollari americani. Banca Aletti – è scritto ancora nel documenti – ha sempre proposto alle Lega investimenti estremamente prudenti e conservativi in linea col profilo del cliente.Il rischio paese ha portato nell’ultimo periodo il cliente verso posizioni sempre piu’ orientate a investimenti con l’estero”.A un certo punto, Belsito cambia decisamente rotta: “Banca Aletti ha cercato di diversificare tali investimenti cercando di seguire la volontà del cliente finché lo stesso ha deciso di agire direttamente sui mercati esteri (Tanzania e Cipro) senza usare piu’ la consulenza della banca”.Investimenti ”in dollari australiani e Usa” e, come si sapeva, “in corone norvegesi”. Ma anche in sicav (ovvero società di investimento a capitale variabile, ndr) e pictet liquidity.Dagli atti dell’inchiesta che ha travolto il partito leghista emerge anche il 16 dicembre 2009 e il 7 aprile 2010 Renzo Bossi fu beneficiario di due bonifici, rispettivamente di 1.000 e 3.000 euro, da parte di Belsito.Con questi due versamenti furono coperte gli addebiti della carta di credito del Trota con questa motivazione “conto studio-rimborso spese”.Emerge anche il figlio del Senatur, che si è dimesso dalla carica di consigliere regionale a causa dello scandalo, ha un conto presso la banca Popolare di Novara, filiale di Genova, che al 16 aprile 2012 presentava un saldo di 32,79 euro.Un conto “immobilizzato da più di un anno” e movimentato “movimentato da addebiti per utilizzo di carta di credito, a volte con generazione di debordi coperti mediante bonifico”.Proprio a causa di “anomalie” emerse nei rapporti con la Lega, un funzionario di una filiale genovese della Banca Aletti, venne allontanato dall’istituto di credito.“Allo stato attuale – si legge nella documentazione delal banca agli atti dell’inchiesta – pur essendo la situazione esterna in continua evoluzione, emergono anomalie definibili come non conformità operative”.Il funzionario, “presso cui sono incardinati rapporti della Lega Nord e di Francesco Belsito” sarebbe stato negligente “per quanto attiene la carente raccolta dei poteri di firma” attribuiti all’ex tesoriere del Carroccio.E così il 23 aprile 2012 “al funzionario che gestiva i rapporti con Belsito è stato notificato da Banca Aletti un provvedimento di allontanamento temporaneo dai servizi con riserva di formulazione di contestazioni disciplinari”.



lunedì 14 maggio 2012

Il Sun "minaccia": «Daniela, la pupa che il Cav. vuole premier» .



Saranno forse vere le ambizioni della donna Billionaire? La «pupa» di Silvio, la «sirena politica»: così il britannico Sun definisce Daniela Santanchè. Il sito del giornale s'interessa all'ex sottosegretario con un titolo che dice: “Silvio babe” PM bid che corrisponde a La pupa di Silvio e l'offerta da premier.
Il Sun parla di Berlusconi come del «settantacinquenne» ex primo ministro «colpito dagli scandali», ovvero «gli scabrosi bunga bunga», assicurando che il Cavaliere «sta preparando una delle sue “pupe” per essere la nuova leader del paese». La pupa in questione è, appunto, Daniela Santanchè. «Affascinante imprenditrice - sottolinea il tabloid - è emersa da un gruppo conosciuto come le pupe di Silvio. La sirena politica è stata soprannominata la Sarah Palin italiana per la sua bella presenza e i suoi fragorosi attacchi all'opposizione».



domenica 13 maggio 2012

L'elezzione der presidente



Un giorno tutti quanti l'animali



Sottomessi ar lavoro



Decisero d'elegge' un Presidente



Che je guardasse l'interessi loro.






C'era la Societa de li Majali,



La Societa der Toro,



Er Circolo der Basto e de la Soma,



La Lega indipendente






Fra li Somari residenti a Roma,



C'era la Fratellanza



De li Gatti soriani, de li Cani,



De li Cavalli senza vetturini,



La Lega fra le Vacche, Bovi e affini...



Tutti pijorno parte a l'adunanza.






Un Somarello, che pe' l'ambizzione



De fasse elegge' s'era messo addosso



La pelle d'un leone,



Disse: - Bestie elettore, io so' commosso:



La civirtà, la libbertà, er progresso...



Ecco er vero programma che ciò io,



Ch'è l'istesso der popolo! Per cui



Voterete compatti er nome mio...






-Defatti venne eletto propio lui.



Er Somaro, contento, fece un rajo,



E allora solo er popolo bestione



S'accorse de lo sbajo



D'ave' pijato un ciuccio p'un leone!



- Miffarolo!... Imbrojone!... Buvattaro!...



- Ho pijato possesso,



- Disse allora er Somaro - e nu' la pianto



Nemmanco si morite d'accidente;



Silenzio! e rispettate er Presidente!






trilussa

sabato 5 maggio 2012

ALESSANDRO CIALDI, QUATTRO MOTIVI PER VOTARLO


Siamo ormai davvero vicini alle urne. Siamo vicini – come sempre – al cambiamento o alla conservazione.
Se domani faremo la nostra croce su Mazzanti, possiamo stare certi che tutto continuerà come prima: come è durato per 70 anni a Pistoia e come durò per altrettanti anni nella gloriosa Unione Sovietica.
Se invece siamo stufi che tutto vada come al solito, fra promesse di partecipazione e decisioni prese dall’alto senza stare a sentire i bisogni della popolazione, non abbiamo che una via: cercare di cambiare, sul serio, votando Alessandro Cialdi.
E per sostenere questo, vi suggeriamo i quattro motivi che ci spingono in questa sola direzione:
  • rompere con un passato che viene dagli anni 80 e che ha portato la città nelle condizioni in cui la vediamo
  • farla finita con un clientelismo-nepotismo che ha incancrenito la macchina amministrativa fino al punto da renderla dispendiosa e inefficiente
  • ricominciare a sperare e lavorare, duro e sodo, per correggere tutti gli errori di trent’anni di sinistra e di 10 infernali anni di Sergio Gori
  • lavorare con un uomo che l’attuale amministrazione, con mossa furbesca, ha creduto di poter coprire di fango, facendo capire quanta paura subisse dalla sua presenza.
Chi può ambire a dirigere un Comune come il nostro, il secondo della Provincia, non fa come il signor Mazzanti, erede del Pd di Sergio Gori, sempre in fuga dal confronto diretto con gli elettori, sempre a nascondersi per non rispondere su Piuss fallimentari e Bilanci che, invece di chiudersi in passivo quando soldi non ce n’erano mai, si sono chiusi in attivo con squilli di tromba e rulli di tamburo.
Chi può ambire a dirigere un Comune come questo, si comporta come Alessandro Cialdi: sereno e forte nelle avversità; pronto ad avanzare a testa alta e a rimboccarsi le maniche con l’idea di un vero servizio ai suoi concittadini.

È per questo che noi vi diciamo: votatelo! Merita assolutamente la vostra incondizionata fiducia.

La Squadra del Blog

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venerdì 20 aprile 2012

PIUSS…..Progetto Inutile Unicamente Senza Senso…..e Senza Soldi



19/04/2012 Tag in: Insieme per Quarrata
Quando qualcosa inizia male, finisce peggio.
Siamo venuti a conoscenza di un fatto che, con tutta probabilità, darà il colpo mortale al progetto PIUSS.
Dopo lo stop ai lavori di costruzione della piscina a Vignole, anche le piste ciclabili non si faranno.
Infatti, il TAR Toscana, con sentenza n° 778/2012 di ieri 18/4/2012, ha annullato la determinazione dirigenziale del Dirigente Area Valorizzazione e Sviluppo del Territorio 6.03.2012, n. 153, Arch. Paola Battaglieri, con la quale si aggiudicava definitivamente alla Endiasfalti S.p.A. in A.T.I. con Impresa Cafissi Alvaro e Guarducci Costruzioni S.r.l. la gara di appalto dei lavori per la realizzazione di una rete di mobilità ciclabile articolata in 4 itinerari.
In parole povere, è stata annullata la gara e si riparte daccapo.
E’ stata annullata per aver sbagliato a nominare la Commissione, della quale non poteva far parte il membro esterno (del Genio Civile) che ha partecipato attivamente alla approvazione del progetto di cui al contratto…..
Cosa dirà, domani, il nostro Sindaco? E il vicesindaco?
Spereranno, come per la piscina, “che tutto si risolva rapidamente”?
L’incapacità di questi amministratori è sotto gli occhi di tutti, di destra, di sinistra e di centro.
Il problema è che a rimetterci saranno i quarratini, che si ritroveranno con debiti per opere che non si realizzeranno.
E il PIUSS, “fiore all’occhiello” di questi amministratori, fallirà…..come volevasi dimostrare.
Non so perché, ma non riesco a sorriderne.

Alessandro Cialdi

mercoledì 18 aprile 2012

a proposito di rifiuti....



Il Piano Interprovinciale di gestione dei rifiuti di ATO Toscana Centro è stato approvato, in Consiglio Provinciale di Pistoia il 13 febbraio 2012.
Stessa cosa hanno fatto le Province di Prato e di Firenze; il 7 marzo è stato pubblicato sul BURT il relativo annuncio e da tale data decorrono i 60 giorni per presentare in forma scritta osservazioni al Piano in oggetto.
Nel frattempo abbiamo saputo dalla stampa che sta andando in porto la creazione di una unica azienda per la gestione del ciclo dei rifiuti attraverso la fusione di quattro società pubbliche o a maggioranza pubblica (ASM di Prato, Publiambiente per Empoli-Valdelsa-Pistoia, Quadrifoglio/Safi di Firenze e CIS Quarrata-Agliana-Montale): un’azienda che servirà un milione e mezzo di toscani, con un valore di produzione di circa 300 milioni di euro e 1800 addetti.
Un colosso simile alle multiutility del Nord Italia.
Si legge, sui giornali, perché nessuna comunicazione è stata ufficialmente data in sede istituzionale, che è un processo di semplificazione che prelude, a breve, alla gara per assegnare il servizio ad una unica azienda per la gestione dei rifiuti per le Province di Firenze, Prato e Pistoia.
Questo è quanto prevedono le norme sulle liberalizzazioni.
Queste notizie, lette sui giornali, riguardano Quarrata?
Assolutamente sì, dal momento che il termovalorizzatore di Montale, di cui Quarrata detiene il 48% delle quote, è uno degli impianti che, con l’ampliamento previsto, contribuirà alla realizzazione del Piano.
Cambia il mondo, e l’assessore all’ambiente nonché vicesindaco Mazzanti, paladino della partecipazione a modo suo, che vorrebbe far credere che con lui sarà tutto diverso, perché non dice il motivo per cui il Consiglio Comunale, e quindi i cittadini, non dovrebbe sapere?
E mentre si studiano sistemi alternativi di trattamento dei rifiuti da proporre e ci si arrampica sugli specchi, i giochi per i prossimi anni sembrano già chiusi in un Piano approvato.
Come essere credibili, se non interessa informare sul destino dell’impianto, che è cosa di tutti i cittadini?
Cosucce da poco, se siamo concentrati solo sulle – tante - buche per le strade.
Questa è la cifra del vantato stile del ben amministrare che ha portato Quarrata, secondo Comune della provincia di Pistoia, ad essere una ruota di scorta, neppure tanto gonfia, nelle partite che contano.



sabato 7 aprile 2012

Umberto, sei tutti loro



“E ora chi rappresenterà il Nord?”, domanda affranto Dario Di Vico, vicedirettore del Corriere, a Linea Notte. E Pigi Battista, sempre sul Pompiere, si unisce al cordoglio magnificando “la riconosciuta grandezza di un leader che ha imposto nell’agenda politica nazionale la “questione settentrionale” e ha interpretato i sentimenti di un popolo che non aveva rappresentanza politica…Non sarà una miserabile vicenda di fondi stornati a cancellare una storia iniziata nelle periferie del sistema”.

Nord? Popolo? Questione settentrionale? Ma la Lega, quando le andava bene, rastrellava il 30 % dei voti validi in Lombardia e in Veneto, molto meno nel resto della cosiddetta Padania: mai rappresentato più del 10-15 % degli elettori nordisti. Il che non cancella il suo ruolo storico nella caduta della Prima Repubblica e nel sostegno a Mani Pulite, quando tutti i vecchi partiti avrebbero volentieri spedito Di Pietro in Aspromonte o in Barbagia. Ma son passati vent’anni. L’ultima volta che Bossi fece qualcosa di utile fu nel ‘94, quando rovesciò B., giocandosi tutto mentre il Cainano si comprava i leghisti a uno a uno (ci volle tutto l’impegno di D’Alema per resuscitarlo con la Bicamerale). Ma son passati 18 anni. Poi la Lega divenne un tragicomico caravanserraglio di pagliacci, parassiti, cialtroni, molti razzisti, qualche ladro, parecchi servi. L’ampolla, il matrimonio celtico, il druido, Odino, il tricolore nel cesso, i terun, i negher, foera di ball, il dito medio, il gesto dell’ombrello, le pernacchie, il ce l’ho duro, i kalashnikov, le camicie i fazzoletti le cravatte verdi, il parlamento padano, la moneta padana, la banca padana, il villaggio vacanze in Croazia, l’amico Fiorani, le zolle di Pontida, l’uscita dall’euro.

Si sono inventati tre trovate da avanspettacolo di strapaese – la secessiùn, il federalismooo, la devolusssion – e ci han campato per due decenni alle spalle del cosiddetto “popolo”. Ma, sotto sotto, di quell’armamentario carnevalesco, ridevano anche i leader, ben felici di trovare qualche milione di persone disposto a bersi tutto come l’acqua del dio Po e a rimandarli a Roma ladrona, a occupar poltrone come tutti gli altri. In un raro momento di lucidità, Calderoli, divenuto ministro, confessò al Corriere: “Su di me non avrei scommesso un soldo”. Ora è nientemeno che triumviro, ma la sua fidanzata Gianna Gancia, che lo conosce bene, fa sapere che “Roberto non va bene, ha il faccione e veste male, va da un sarto quasi cieco”. Senza contare che un giorno, colto da raptus, incenerì col lanciafiamme “375 mila leggi inutili”, fra cui i decreti di annessione del Veneto e del ducato di Mantova al Regno d’Italia. Ora sui giornali è tutto un rincorrersi di versioni assolutorie per il grande capo: han fatto tutto il cerchio magico, la famiglia famelica, la moglie fattucchiera, i figli spendaccioni, la badante Rosi, il tesoriere ladro, all’insaputa del povero infermo.

A parte il fatto che Bossi sapeva da mesi, almeno da quando i giornali lo informarono che Belsito aveva portato 7 milioni in Tanzania e questo lo ricattò sui soldi alla Family per salvare la cadrega, chi ha scelto Belsito? Bossi. Chi ha mandato in Regione il Trota a 12 mila euro al mese? Bossi (senza contare i presunti 20 milioni di fondi neri da lui girati all’ex tesoriere Balocchi). Il resto sono lacrime di coccodrillo. Ma la mano leggera e l’occhio umido di molti giornali nasconde una coda di paglia lunga così: per anni han preso sul serio quei gaglioffi e il loro federalismo da baraccone. Anche le parole tenere e commosse degli altri capi-partito celano la coda di paglia di chi sa benissimo che la truffa dei “rimborsi” senza controllo riguarda tutti: oggi è toccato a Bossi, domani potrebbe toccare a loro. Ieri mattina infatti, letti i giornali, il Senatur ha prontamente cambiato parole d’ordine: non più l’ “ho sbagliato” della sera prima, ma “è un complotto” dei soliti pm.

Se passa il principio che un leader neppure indagato si dimette, si crea un pericoloso precedente. Infatti dal Palazzo si leva un coro unanime: Umbe’, nun ce lassà.

di Marco Travaglio da :http://www.ilfattoquotidiano.it/