giovedì 20 settembre 2012

IL CAPOGRUPPO PDL IN REGIONE LAZIO BATTISTONI SI E’ DIMESSO: LA POLVERINI HA FATTO FUORI IL PRIMO

LA GOVERNATRICE RIMANDA OGNI DECISIONE PERSONALE: “IO SONO UNA PERSONA ONESTA, VOGLIO USCIRE DA QUESTA VICENDA A TESTA ALTA”… BERLUSCONI TEME LA SPACCATURA CON GLI EX AN IN VISTA DELLE POLITICHE




Il Pdl passa al regolamento di conti. Mentre la mattinata si chiude con le dimissioni del capogruppo in Regione Francesco Battistoni, una delle richieste del presidente Renata Polverini ancora in bilico tra dimissioni e permanenza in carica, il caso Lazio si trasforma in una partita nazionale che mina il matrimonio tra berlusconiani ed ex An.

E mette a rischio la tenuta del Pdl anche in altre regioni, a cominciare dalla Lombardia, dove è in bilico la permanenza in sella di Roberto Formigoni, travolto dagli scandali e alle prese con il nuovo corso della Lega nord. Per non parlare del voto politico che è già dietro l’angolo.

Battistoni, fresco successore del protagoinista dello scandalo Franco Fiorito alla guida del gruppo Pdl in Regione Lazio, ha gettato la spugna dopo un faccia a faccia con il segretario nazionale Angelino Alfano.

E il presidente?

Dopo aver dettato in consiglio regionale le sue condizioni per moralizzare la vita politica ed evitare il tutti a casa, Renata Polverini non ha ancora preso una decisione, e ha ricevuto da Silvio Berlusconi un pressante invito a restare (“Ho sentito Berlusconi, non l’ho visto”, precisa oggi Polverini).

”Dimissioni? qualcuno parla al posto mio, domani si riunisce il consiglio, poi vediamo”, ha detto ai giornalisti uscendo di casa per andare “dal medico”, ha precisato.

“Ho condizionato il mio impegno al consiglio, non sono disposta a pagare le colpe di altri”.

Domani il consiglio regionale del Lazio voterà sui tagli e sulla riduzione dei costi della politica.

Dopodiché il presidente potrebbe annunciare la decisione che riporterebbe la Regione alle urne.

Intanto promette: “Oggi daremo i dati. Ho dato autorizzazione ai miei uffici di mettere rete e di trasmettere alle agenzie quello che noi abbiamo fatto e quello hanno fatto gli altri”.

”Io sono una persona onesta”, ha continuato Polverini parlando con i giornalisti sotto casa, “non ho mai rubato nulla e respingo scenari raccapriccianti. Di questa classe politica faccio parte, ma ne voglio uscire bene”.

E a chi le chiedeva una candidatura da premier ha risposto: “Ma per carità”.

Il presidente della Regione Lazio ha parlato anche della sua partecipazione all’ormai famosa festa in stile antica Roma, con ancelle in toga e maschere da maiale, organizzata dal consigliere regionale Pdl Carlo De Romanis.

“Sono stata invitata a una festa da un consigliere per festeggiare l’addio al suo vecchio incarico, questo ragazzo credo abbia rapporti con Tajani: le foto mostrano il mio sconcerto e me ne sono andata via subito”.

Sulle condizioni poste per la sua permanenza, Polverini precisa: ”Io non chiedo la testa di nessuno, faccio il presidente di Regione e agisco nel rispetto delle mie prerogative. Il Pdl, partito che sostiene la mia maggioranza, ci ha messo nei guai attraverso persone poco perbene, a dire poco”.



(da “Il Fatto Quotidiano”)
da: http://www.destradipopolo.net/



PDL: UN PARTITO IN FRANTUMI

QUALE MALE MINORE PERSEGUIRE DA QUI AL VOTO?… IL CASO LAZIO E IL TIMORE DI UN EFFETTO DOMINO
Sarebbe azzardato sostenere che il collasso del centrodestra laziale anticipi, in miniatura, la crisi del Pdl nazionale.
Per quanto riguarda la giunta di Renata Polverini, la sorpresa semmai è che non sia implosa prima: esprime una classe dirigente che non è mai apparsa tale per l’incapacità, se non il rifiuto, dei partiti di trovare persone competenti.
Per il movimento di Silvio Berlusconi la situazione è diversa.
Le tensioni affondano nella perdita di identità e di leadership dell’ex premier, che irradia disorientamento e incertezza sull’intera ex maggioranza.
Le stesse voci, magari gonfiate in modo strumentale, di una scissione tra i «puri» di Forza Italia e la componente di An, sono il sintomo di una diaspora latente. L’impressione è che Berlusconi voglia tentare di arginare lo spettacolo indegno offerto dai politici della regione Lazio.
Il vertice convocato ieri sera nella sua abitazione romana sa di manovra in extremis per evitare che l’immagine sfigurata del Pdl locale contagi l’intero partito a pochi mesi dalle elezioni politiche.
L’ombra inevitabile di un’inchiesta della magistratura contribuisce a drammatizzare uno sfondo nel quale sarebbe difficile, questa volta, evocare il fantasma della «giustizia a orologeria».
Eppure, sarà acrobatico scindere e distinguere le responsabilità politiche; e riuscire ad accreditare una pulizia interna tale da cancellare o solo bilanciare quanto sta venendo fuori.
Anche perché si affianca alle inchieste giudiziarie che frugano nel sottobosco della regione Lombardia, cuore storico del potere berlusconiano.
E promette di preparare la riconquista del Campidoglio e della Regione da parte del centrosinistra, di qui alla primavera prossima.
Per questo lo scandalo potrebbe tradursi in ulteriori spinte centrifughe: si inserisce in una fase di enorme sofferenza del Pdl.
Non soltanto, però, tra berlusconiani «puri e duri» ed «ex fascisti», come alcuni settori del centrodestra hanno ricominciato a chiamare gli ex di An.
Lo scontro attraversa lo stesso Pdl semi-orfano della guida del Cavaliere, e la stessa An orfana di Gianfranco Fini.
Dilata il disaccordo sulla sesta candidatura di Berlusconi a palazzo Chigi e sull’atteggiamento da tenere nei confronti del governo di Mario Monti.
Ma finisce per toccare anche i rapporti con gli ex alleati della Lega e con l’Europa.
E riconduce a una domanda sul futuro tuttora in sospeso: quale «male minore» perseguire di qui a un voto che si preannuncia sempre più incerto e nel segno di una probabile sconfitta.
L’ipotesi di serrare le fila, facendo volare qualche straccio, è intrigante quanto problematica.
Non perché il Pdl non ci pensi,ma perché sarà difficile metterla in pratica. L’atteggiamento della nomenklatura coinvolta è quello di chi ha avuto un breve quanto intenso tirocinio su come funziona il sottopotere.
E si prepara a usarlo non per ammettere le proprie responsabilità ma per additare complici: come minimo in termini politici.
E probabilmente senza salvare nessuno, a cominciare dalla Polverini.
L’epilogo delle dimissioni, che pure sarebbe positivo e forse diventerà inevitabile, aprirebbe un altro buco nero nel centrodestra.
Berlusconi vuole evitarle, per prevenire un «effetto domino», ma la governatrice traccheggia, tutta intenta a calcolare le conseguenze di ogni sua mossa. Vuole apparire diversa dai suoi sodali; ed è preoccupata per il suo futuro politico.
Ma, ci sia o no un suo passo indietro, si conferma l’esistenza di un sistema di potere postumo di se stesso.
È il segno che l’immobilismo scelto come tattica da Berlusconi per tenere insieme l’esercito (e l’elettorato) rimasto fedele al suo mito logoro di vincente non basta.
Il blocco si sgretola dall’interno, corroso non dagli scandali ma dal difetto di politica e dall’eccesso di famelico dilettantismo: il malaffare sembra essere solo il prodotto finale, quasi il destino di quel peccato originale.
Può darsi che di fronte al disastro prevalga ancora la logica del bunker, perché nessuno ha la forza e il coraggio per divincolarsi.
In questo caso, si assisterà alla sopravvivenza sempre più precaria e malinconica di equilibri, alleanze e leader che appartengono a un’altra era geologica; e alla crescita di finti anticorpi e antidoti, che in realtà sono parte della crisi e non la sua soluzione.
Massimo Franco
(da “Il Corriere della Sera”)

lunedì 3 settembre 2012

DALLA CHIESA, QUEI CENTO GIORNI DI SOLITUDINE



TRENT’ANNI FA LO STATO LO LASCIO’ SOLO… ERA IL 3 SETTEMBRE 1982 QUANDO IN VIA CANINI A PALERMO VENNERO UCCISI IL GENERALE E SUA MOGLIE



Il generale Carlo Alberto dalla Chiesa venne assassinato in una calda serata sciroccosa. Erano passate da poco le 21 del 3 settembre 1982 e la A112 color crema, guidata dalla giovane moglie, Emanuela Setti Carraro, imboccava la via Isidoro Carini, lasciandosi alle spalle Villa Whitaker - sede della Prefettura - diretta verso il refrigerio di un ristorante all’aperto del golfo di Mondello.Seguiva l’utilitaria l’agente Domenico Russo, alla guida dell’Alfa blu che il generale prefetto non utilizzava, convinto che l’anonimato di una «normale macchinetta» offrisse maggiori garanzie di sicurezza dell’auto blu, immediatamente identificabile.Precauzione inutile, perché la task-force messa in campo da Cosa nostra monitorava da diverse ore i movimenti del bersaglio e forse aveva potuto disporre anche della soffiata partita da Villa Whitaker, da qualcuno che controllava strettamente il generale.Due macchine e due moto rasero al suolo la A112, senza risparmio di violenza e a nulla valse la protezione offerta ad Emanuela dall’abbraccio coraggioso del marito.L’agente Russo fu finito dal killer più sanguinario di quel momento: Giuseppe Pino Greco, detto «Scarpuzzedda».I palermitani stavano a cena, davanti ai televisori.La notizia, tuttavia, non l’ebbero dai telegiornali perché arrivò prima il passaparola.Esplose così rapida da richiamare in pochi minuti una folla di gente in piedi, impietrita in un silenzio irreale, con gli occhi rossi di rabbia.Quando, ormai a notte fatta, fu smontata la scena e i fari, i lampeggiatori delle volanti, si spensero, rimase solo la fragile disperazione di una città, sintetizzata in un cartello che sentenziava: «Qui muore la speranza dei palermitani onesti».Così fu spenta una luce che si era accesa appena cento giorni prima, sull’onda dell’ennesimo eccidio mafioso che aveva colpito il segretario regionale del Pci, Pio La Torre, abbattuto dalla mafia insieme con l’amico, compagno e scorta volontaria, il militante Rosario Di Salvo.La speranza, per la verità, non era nata sotto i migliori auspici.Il generale era stato inviato a Palermo come un’arma spuntata: Roma non aveva voluto dargli gli stessi poteri che gli erano stati dati nella lotta al terrorismo.Prefetto senza poteri speciali: un messaggio rassicurante per la palude palermitana, preoccupata per la presenza di un uomo deciso, carabiniere nel Dna, poco incline alle pantomime sicule dell’indignazione senza conseguenze.E infatti la città gli dimostrò immediatamente tutta la propria avversione.La città del potere, ovviamente.Perché i cittadini, invece, riponevano molte aspettative sulle capacità del prefetto.Carlo Alberto dalla Chiesa arrivò a Palermo in incognito. Ignorò l’auto che l’aspettava in aeroporto, montò su un taxi ed arrivò in Prefettura «pieno» delle notizie e degli umori strappati al tassista loquace.Non si fidava, il generale, e con quella «presentazione» intendeva mettere subito le cose in chiaro.Fu criticato, ovviamente, per quella scelta.Non gli furono risparmiate ironie e commenti, pesanti allusioni sulla differenza di età con la giovane seconda moglie: insomma tutto il repertorio della maldicenza e della mafiosità locale. Persino il sindaco, l’avvocato Nello Martellucci, uomo del gruppo di potere dominante (Lima, Ciancimino, Gioia), si rifiutò di portargli il saluto con la pretestuosa motivazione che doveva essere il generale a «presentarsi» al padrone di casa.E come lo sbeffeggiavano quando andava nelle scuole a parlare di legalità coi ragazzi o quando faceva sequestrare agli angoli delle strade il pane prodotto e venduto abusivamente. Solo Leonardo Sciascia capì il valore di quel gesto e spiegò che non si poteva battere la mafia fino a quando i mercati di Palermo sarebbero rimasti repubbliche indipendenti.Come a dire c’è Cosa nostra ma anche qualcosa di più subdolo, per esempio la mafiosità.La solitudine del generale, in quei cento giorni palermitani, è stata ricordata più volte dal figlio, Nando, che non ha mai modificato il suo giudizio duro sulla politica che isolò il padre (giudizio riproposto oggi a Luciano Mirone, autore di «A Palermo per morire»).E quando si parla dell’isolamento di Dalla Chiesa il discorso non può non cadere sul rapporto con Giulio Andreotti, a cui il generale, in partenza - «disarmato» per Palermo - anticipa che non avrà «nessun riguardo per la corrente Dc più inquinata» (quella di Salvo Lima, di Gioia, di Ciancimino e dei cugini Ignazio e Nino Salvo).Li conosceva bene, il prefetto, quei personaggi.Aveva redatto un rapporto destinato alla Commissione antimafia, quando era comandante della Legione a Palermo.Ma quell’analisi - ricorda il figlio Nando - era arrivata in Parlamento molto manipolata, addirittura coi nomi «sbianchettati».Qual era lo stato d’animo del generale e della giovane moglie, pochi giorni prima dell’eccidio? Bastano le parole dette al telefono alla madre da Emanuela: «Non posso venire a Milano, non voglio lasciare Carlo nemmeno per un momento, chi lo salverebbe? Siamo dimenticati, mamma, da chi ci dovrebbe tutelare».Gli assassini del generale, della moglie e dell’agente sono stati condannati. Ma si tratta dei macellai.Mancano le menti raffinatissime, per dirla con le parole di Giovanni Falcone.Chi ha tradito Dalla Chiesa?Quale conto hanno fatto pagare al generale sabaudo mandato nella terra degli infedeli? Persino la Chiesa siciliana, solitamente cauta, nel giorno dei funerali usò parole di fuoco e puntò il dito sul potere ignavo: «Mentre a Roma si discute sul da farsi, Sagunto viene espugnata», gridò il cardinal Pappalardo dal sagrato della basilica di San Domenico.Fu solo mafia?Oppure il «conto» inglobava anche i segreti del sequestro Moro e di quel grumo conseguente, conosciuto alle cronache come l’affaire del giornalista Mino Pecorelli?Certo, dopo trent’anni è difficile andare a rovistare nei pozzi neri, forse andava fatto subito. Ma una coincidenza va sottolineata, al di là di ciò che hanno raccolto le indagini: Moro, Pecorelli e Dalla Chiesa sono vicende caratterizzate da una non frequente «sinergia» tra mafia e terrorismo.La mafia siciliana ha ucciso (chissà perché?) il giornalista molto intimo dei Servizi, è stata coinvolta nel tentativo di salvare Aldo Moro prigioniero delle Br e ha pianificato ed eseguito l’assassinio del generale.Come una vera agenzia del crimine al servizio di altri.
Francesco La Licata