Fausto Bertinotti apre virtualmente la crisi e azzera i tempi della resa dei conti all’interno dell’Unione. Lo schiaffo è pesantissimo e si abbatte come la visione di un tradimento consumato in diretta sul volto di Romano Prodi. I contraccolpi, naturalmente, sono ancora tutti da valutare, non ultimo l’uno-due incassato al Senato, con il governo battuto questa mattina per due volte consecutive sul decreto sicurezza. Una bocciatura che appare come il sigillo di uno scontro intestino deflagrato in termini imprevisti.
Ma la scossa elettrica dell’esternazione con cui Fausto il Rosso archivia come fallimentare l’esperienza del centrosinistra e del governo e, senza andare tanto per il sottile, paragona il premier al Cardarelli di Ennio Flaiano - «il più grande poeta morente» - appare come il colpo più pesante e fa cadere il gelo nei rapporti tra il presidente della Camera e l’inquilino di Palazzo Chigi.
Lo spartito del dubbio e della paura è quello che inevitabilmente viene suonato da tutti i leader dell’Unione, tanto nelle parole ufficiali quanto in quelle consumate a quattrocchi, nelle stanze parlamentari. Inevitabilmente la memoria torna dritta dritta al ’98, al primo ribaltone e all’irresistibile tentazione bertinottiana di un ritorno dentro il “formato” dell’opposizione. E se i ministri si stringono attorno a Prodi, al padre nobile di Rifondazione - che punta, attraverso una riforma elettorale ad hoc alla rinascita della sinistra unita - arriva un avvertimento dal regista della partita sulle riforme, ovvero da Walter Veltroni: «Con gli attacchi al governo la legge elettorale rischia».
Parole e pensieri, però, non sempre coincidono, Sì, perché in realtà, al di là delle inevitabili prese di distanza, il segretario del Partito democratico non avrebbe affatto disdegnato l’affondo bertinottiano, soprattutto nella parte in cui ha battuto sul tasto sulla “necessità delle riforme”. L’origine della vis pugnandi bertinottiana, d’altra parte, va ricercata proprio nel timore del referendum. “Il fantasma del ’98 non ci può far accettare tutto” dice il presidente della Camera. “Già abbiamo votato il welfare per senso di responsabilità, ora basta”. Perché se il welfare può al massimo far scattare un calo di consensi per Rifondazione, il referendum può arrivare a decretare la morte del partito. Seguire Veltroni nella sua missione per l’archiviazione del bipolarismo attuale diventa quindi un imperativo e un percorso obbligato.
D’altra parte è da tempo che Bertinotti non risparmia giudizi pesanti, marcando sempre più la distanza da Prodi: prima l’ormai famoso “brodino” preso da un esecutivo malato dopo la scampata crisi di governo, poi la proposta di un governo istituzionale per le riforme. Infine lo schiaffo più duro, inferto martedì, con quelle parole apparse a molti come un “de profundis” per la maggioranza: «Bisogna prenderne atto: questo centrosinistra ha fallito, una stagione si è chiusa, abbiamo un governo che sopravvive ma che ha alimentato tensioni e accresciuto le distanze dal popolo e dalle forze della sinistra».
Di fronte a queste bordate Palazzo Chigi cerca di tenere a freno i nervi e di tenere un basso profilo. «Non c’è dubbio - spiegano in ambienti governativi - che il governo stia lavorando nella direzione giusta ma, nonostante questo, bisogna accelerare il percorso e a gennaio si farà il punto complessivo dell’azione di governo». La rabbia, insomma, in questo momento non è un sentimento politicamente agibile. E così da Prodi arrivano aperture e segnali di disponibilità. Il Professore si dice disponibile ad aggiornare l’agenda delle priorità, che per Bertinotti sono «salari e precarietà», proprio nel giorno in cui i leader confederali decidono uno sciopero generale in caso di mancato rinnovo dei contratti. Se il governo trattiene la rabbia, picchiano duro gli esponenti della Cosa Rossa, da Mussi a Diliberto, che prendono le distanze da Bertinotti a pochi giorni dagli Stati generali della Sinistra. Ma, oltre a liquidare come “ingenerosa” la diagnosi del presidente della Camera, nella maggioranza ci si interroga sulle vere intenzioni del presidente di Montecitorio. E anche Follini e Mastella non hanno paura di rievocare gli spettri del ’98, e vedono nell’intervista di Bertinotti la preparazione di una exit strategy del Prc in vista della verifica di gennaio.
Quel che è certo è che Romano Prodi non ha nessuna intenzione di incarnare la parte del poeta morente, assegnatagli dal presidente della Camera. E’ consapevole che la ferita bertinottiana chiude una fase, forse una stagione. Ma il Professore, come al solito, è pronto a vendere cara la pelle. Sa bene che l’ex leader di Rifondazione sta cercando in tutti i modi di iscriversi al club delle mani libere: quello che raccoglie malumori e frustrazioni assortite degli alleati. E così si prepara, nel vertice di maggioranza della prossima settimana, ad aumentare la pressione su Veltroni, convincendolo a tenere nel debito conto - nella sua offensiva pro-riforme – le esigenze dei piccoli partiti e la sopravvivenza del governo. Senza dimenticare che il generale-referendum è dietro l’angolo e avrebbe effetti devastanti sul futuro del centrosinistra.
Ma la scossa elettrica dell’esternazione con cui Fausto il Rosso archivia come fallimentare l’esperienza del centrosinistra e del governo e, senza andare tanto per il sottile, paragona il premier al Cardarelli di Ennio Flaiano - «il più grande poeta morente» - appare come il colpo più pesante e fa cadere il gelo nei rapporti tra il presidente della Camera e l’inquilino di Palazzo Chigi.
Lo spartito del dubbio e della paura è quello che inevitabilmente viene suonato da tutti i leader dell’Unione, tanto nelle parole ufficiali quanto in quelle consumate a quattrocchi, nelle stanze parlamentari. Inevitabilmente la memoria torna dritta dritta al ’98, al primo ribaltone e all’irresistibile tentazione bertinottiana di un ritorno dentro il “formato” dell’opposizione. E se i ministri si stringono attorno a Prodi, al padre nobile di Rifondazione - che punta, attraverso una riforma elettorale ad hoc alla rinascita della sinistra unita - arriva un avvertimento dal regista della partita sulle riforme, ovvero da Walter Veltroni: «Con gli attacchi al governo la legge elettorale rischia».
Parole e pensieri, però, non sempre coincidono, Sì, perché in realtà, al di là delle inevitabili prese di distanza, il segretario del Partito democratico non avrebbe affatto disdegnato l’affondo bertinottiano, soprattutto nella parte in cui ha battuto sul tasto sulla “necessità delle riforme”. L’origine della vis pugnandi bertinottiana, d’altra parte, va ricercata proprio nel timore del referendum. “Il fantasma del ’98 non ci può far accettare tutto” dice il presidente della Camera. “Già abbiamo votato il welfare per senso di responsabilità, ora basta”. Perché se il welfare può al massimo far scattare un calo di consensi per Rifondazione, il referendum può arrivare a decretare la morte del partito. Seguire Veltroni nella sua missione per l’archiviazione del bipolarismo attuale diventa quindi un imperativo e un percorso obbligato.
D’altra parte è da tempo che Bertinotti non risparmia giudizi pesanti, marcando sempre più la distanza da Prodi: prima l’ormai famoso “brodino” preso da un esecutivo malato dopo la scampata crisi di governo, poi la proposta di un governo istituzionale per le riforme. Infine lo schiaffo più duro, inferto martedì, con quelle parole apparse a molti come un “de profundis” per la maggioranza: «Bisogna prenderne atto: questo centrosinistra ha fallito, una stagione si è chiusa, abbiamo un governo che sopravvive ma che ha alimentato tensioni e accresciuto le distanze dal popolo e dalle forze della sinistra».
Di fronte a queste bordate Palazzo Chigi cerca di tenere a freno i nervi e di tenere un basso profilo. «Non c’è dubbio - spiegano in ambienti governativi - che il governo stia lavorando nella direzione giusta ma, nonostante questo, bisogna accelerare il percorso e a gennaio si farà il punto complessivo dell’azione di governo». La rabbia, insomma, in questo momento non è un sentimento politicamente agibile. E così da Prodi arrivano aperture e segnali di disponibilità. Il Professore si dice disponibile ad aggiornare l’agenda delle priorità, che per Bertinotti sono «salari e precarietà», proprio nel giorno in cui i leader confederali decidono uno sciopero generale in caso di mancato rinnovo dei contratti. Se il governo trattiene la rabbia, picchiano duro gli esponenti della Cosa Rossa, da Mussi a Diliberto, che prendono le distanze da Bertinotti a pochi giorni dagli Stati generali della Sinistra. Ma, oltre a liquidare come “ingenerosa” la diagnosi del presidente della Camera, nella maggioranza ci si interroga sulle vere intenzioni del presidente di Montecitorio. E anche Follini e Mastella non hanno paura di rievocare gli spettri del ’98, e vedono nell’intervista di Bertinotti la preparazione di una exit strategy del Prc in vista della verifica di gennaio.
Quel che è certo è che Romano Prodi non ha nessuna intenzione di incarnare la parte del poeta morente, assegnatagli dal presidente della Camera. E’ consapevole che la ferita bertinottiana chiude una fase, forse una stagione. Ma il Professore, come al solito, è pronto a vendere cara la pelle. Sa bene che l’ex leader di Rifondazione sta cercando in tutti i modi di iscriversi al club delle mani libere: quello che raccoglie malumori e frustrazioni assortite degli alleati. E così si prepara, nel vertice di maggioranza della prossima settimana, ad aumentare la pressione su Veltroni, convincendolo a tenere nel debito conto - nella sua offensiva pro-riforme – le esigenze dei piccoli partiti e la sopravvivenza del governo. Senza dimenticare che il generale-referendum è dietro l’angolo e avrebbe effetti devastanti sul futuro del centrosinistra.
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