venerdì 17 ottobre 2008

GIOVANNI PAOLO II/ Le ragioni e la forza del suo «Non abbiate paura»



Forse è stata la curiosità per il nuovo Papa venuto dalla lontana Polonia. Forse la simpatia destata dalla sua giovane età, dall’italiano ancora approssimativo, da quel suo scardinare usi consolidati (è stato il primo pontefice a tenere un breve discorso dalla loggia di San Pietro subito dopo l’elezione). Forse è stato il desiderio non ben consapevole di qualcosa di nuovo. Sta di fatto che c’era molta attesa, trent’anni fa, per il discorso con cui Giovanni Paolo II avrebbe inaugurato il suo pontificato. Ed effettivamente quel discorso è rimasto a lungo nella memoria di molti. Soprattutto per quella frase quasi gridata: «Non abbiate paura».

Come mai il vescovo di Roma e pastore della Chiesa cattolica universale parlava di paura? Paura di che? Un primo livello di lettura ci riporta alla situazione geopolitica di allora. I due blocchi delle superpotenze continuavano ad affrontarsi, nonostante tiepidi tentativi di riavvicinamento, in una sempre aggiornata versione di guerra «fredda»; la corsa agli armamenti proseguiva forsennata e la minaccia di un conflitto nucleare, piuttosto che allontanarsi, pareva incombere sempre più vicina. E negli anni successivi, per quel poco che si può a tutt’oggi sapere dell’ultimo periodo agonico dell’URSS, sembra sia stata ad un soffio dal realizzarsi quando, a metà degli anni Ottanta, l’Unione Sovietica, ormai sfiancata economicamente, ha pensato di risolvere la contesa con gli Stati Uniti sferrando il «primo colpo».

Il conflitto atomico era, dunque, una ipotesi spaventosa, ma reale. Faceva paura. Se il primo e il secondo mondo continuavano ad affrontarsi sull’orlo del baratro di un conflitto aperto, quello che ancora si chiamava «terzo» mondo (e non «paesi in via di sviluppo» come si userà in seguito) era schiacciato dalla paura della fame, del sottosviluppo (l’Africa abbandonata a se stessa da una decolonizzazione scriteriata, l’Asia ricca di popolazione e povera di pane) o dell’assenza di democrazia (gran parte dell’America Latina).

Ma il punto di vista di papa Wojtyla non era principalmente socio-politico. Ben altre paure incombevano sull’umanità. Prima tra tutte la paura per il destino stesso della civiltà umana. Come Giovanni Paolo II avrà modo di chiarire nel suo lungo pontificato, l’uomo contemporaneo ha paura del prodotto stesso del suo ingegno, della sua ricerca. La devastazione della natura, la messa in moto di dinamiche sociali che non si possono più controllare, la possibilità di intervenire con la scienza e la tecnica nei gangli più sacri della vita (la nascita e la morte), la potenzialità devastante della comunicazione di massa sono tutti fenomeni che incutono paura. Non perché in sé siano malvagi, ma perché inevitabilmente si portano dietro possibilità distruttive, possono innescare processi disumanizzanti.

È, in fondo, la domanda sul senso del progresso umano che non può essere accettato solo perché possibile. Se non si tiene presente la domanda sul senso (cioè la direzione) di quel processo e quindi non lo si sottopone alla verifica della sua positività, cioè il bene dell’uomo, di ogni singolo uomo, proprio quel progresso si trasforma in una minaccia. Oscuramente ma sensibilmente percepita come sorgente di paura.

Con quel suo grido a non avere paura Giovanni Paolo II toccava anche un altro, più profondo, livello. La paura di Dio e di Dio diventato uomo. Aggiungeva infatti: «Aprite, anzi spalancate, le porte a Cristo». Quando Cristo fa paura? Quando sembra contraddire l’esigenza umana di compimento e di felicità. Ma il cristianesimo, ricordava con forza vibrante il nuovo Papa, non è contro l’uomo. Anzi solo in Cristo l’uomo trova se stesso (come dice un passaggio del documento conciliare Gaudium et Spes che Giovanni Paolo II amava citare, anche perché probabilmente ne è stato uno degli estensori) ed è quindi in grado di affrontare tutte le paure destate dalla situazione circostante.

Quel richiamo non era ovvio e scontato. Da molti infatti si pensava che il cristianesimo avrebbe potuto continuare ad avere corso nella storia se avesse in qualche modo messo da parte la propria pretesa di «salvare l’uomo» (quindi liberarlo dalla paura), per sciogliersi nel comune cammino umano. E infatti i primi mesi e anni del pontificato di Giovanni Paolo II videro un impressionante serie di attacchi al suo magistero. Non c’era pronunciamento pontificio che non venisse giudicato reazionario, repressivo, antimoderno, integralista. Una aggressione di cui forse oggi molti si dimenticano.

All’invito a non avere paura Giovanni Paolo II ispirò tutti gli atti del suo magistero. La sua prima enciclica Redemptor hominis è una risposta a chi sente Cristo come una minaccia, mentre Egli è la possibilità stessa del compimento umano. Un compimento che nessuna situazione esterna può impedire; come testimonia la stessa vicenda personale del Papa che ha dovuto lavorare per dedicarsi agli studi teologici e lottare strenuamente contro il potere marxista e ateo nella sua Polonia.

Nei suoi interminabili viaggi in tutti gli angoli del mondo, nessuna sfumatura dei pericoli incombenti sul cammino umano è stata da lui tralasciata. La forza della «verità sull’uomo portata dal cristianesimo» (quella stessa che gli veniva contestata dagli intellettuali progressisti, anche nella Chiesa, di tutto il mondo) si faceva in quei suoi pellegrinaggi giudizio pertinente sui mali e le storture in cui si imbatteva e, nel contempo e inestricabilmente, annuncio di speranza, invito a non cedere alla paura, indicazione di strade percorribili. Nessuno, poi, si nasconde il ruolo centrale che il Papa venuto dall’Est ha avuto nello scardinare il monolite sovietico e quindi ridisegnare i tratti stessi del conflitto tra i due blocchi.

Non è difficile constatare che, a trent’anni di distanza, la paura non sia venuta meno. Non più tardi di qualche settimana fa a Roma si è svolto un importante convegno incentrato proprio su questo fenomeno, che appare anzi sempre più invasivo. Certamente i dati dello scenario sono cambiati. A livello geopolitico, ad esempio, ci troviamo di fronte al fenomeno islamistico, che trent’anni fa era inimmaginabile, o a quello dell’immigrazione, che aveva dimensioni decisamente più ridotte. La paura delle conseguenze del progresso è invece ormai consapevolezza diffusa: le discussioni sulla bioetica, piuttosto che sull’invasività di internet (anch’essi fenomeni del tutto nuovi) lo sta a dimostrare.

Probabilmente questi trent’anni ci hanno resi più consapevoli che ci sono molte ragioni per temere. Ma, oggi come allora, la proposta contro la paura di Giovanni Paolo II resta identica: «Aprite, anzi spalancate, le porte a Cristo». E, oggi come allora, è facile verificare l’efficacia di questa proposta: la paura è vinta dalla speranza.

Pigi Colognesi, Il Sussidiario,
venerdì 17 ottobre 2008

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