mercoledì 8 ottobre 2008

Il primato del fare e il mito risorgente della superiorità morale. Stefano Folli


Piccole cronache dello strano bipolarismo italiano. Il presidente della Camera, Fini, ha posto un freno alla baldanza con cui il premier Berlusconi ha annunciato che il governo farà ricorso in modo sempre più massiccio ai decreti legge, così da aggirare le lungaggini parlamentari. Il presidente del Senato, Schifani, invece non vede il problema e ritiene, anzi, che il Parlamento stia facendo il suo dovere legislativo.Il problema è antico. Tutti i governi, salvo eccezioni, hanno fatto uso e abuso dei decreti. Spesso vi erano costretti dalle circostanze, in presenza di autentiche sabbie mobili parlamentari. Più in generale, sfruttavano la scorciatoia. O tentavano di farlo: la storia repubblicana è piena di decreti non convertiti e lasciati decadere. La differenza è che i premier del passato, anche quando esageravano con i decreti, amavano rendere un omaggio magari lievemente ipocrita alla «centralità del Parlamento». Berlusconi, viceversa, è il primo che rivendica in maniera esplicita il ricorso al decreto legge. Con l’argomento che in tal modo si evita di perdere tempo fra Camera e Senato.Per la nostra cultura parlamentare è quasi uno choc. Non solo a Palazzo Chigi siede un presidente del Consiglio che gode di un potere sconosciuto a tutti i suoi predecessori. Ma costui, l’«uomo del fare», non esita a trattare con qualche sufficienza i suoi stessi parlamentari, membri di una maggioranza ampia come non mai. Il fatto è che Berlusconi, esaltando il ricorso al decreto, sa di interpretare il sentimento di una larga opinione pubblica desiderosa di efficienza. Egli parla e agisce come se fosse stata già approvata la riforma della Costituzione: una riforma, va da sé, che fotografa il ruolo crescente dell’esecutivo a scapito del Parlamento.Gianfranco Fini, pur essendo parte della maggioranza (come Schifani, del resto), ha avuto da obiettare. Con argomenti logici ha difeso la funzione delle Camere. Si può esser certi che così facendo ha voluto anche dar voce ai dubbi del Quirinale. È uno dei casi in cui è opportuno che il presidente di uno dei rami del Parlamento «copra la corona». Non si può chiedere a Napolitano, cui spetta di firmare i decreti, di esporsi in prima persona in una sorta di conflitto sotterraneo con il governo. Meglio concentrare gli sforzi verso una modifica dei regolamenti parlamentari: come sostiene Fini, con l’accordo su questo del premier.L’episodio, da non trascurare, sembra portare acqua al mulino dell’opposizione. Ma Berlusconi non se ne cura ed è convinto - finora con qualche ragione - che gli italiani lo seguano. D’altra parte, le polemiche di Veltroni sulla «crisi della democrazia» avrebbero bisogno di essere sostenute con argomenti più incisivi. Ieri il leader del Pd ha negato al premier la possibilità di candidarsi al Quirinale «perché non ha fatto il bene dell’Italia». In tal modo Veltroni recupera il mito della «diversità morale» della sinistra. Solo chi è moralmente migliore può decidere se l’avversario «ha fatto il bene» del Paese. Invece di preoccuparsi della sua ascesa al Quirinale, sarebbe meglio chiedere a Berlusconi una riforma equilibrata della Costituzione, con i pesi e contrappesi necessari. Eppure, proprio su questo nodo, Veltroni (in un’intervista all’Espresso) è piuttosto ambiguo: tanto da lasciar intendere che, a certe condizioni, il presidenzialismo potrebbe piacergli. E sulla riduzione del numero dei parlamentari, il Pd voterebbe a favore. Ma se il problema è la crisi della democrazia, non sarebbe pericoloso? (Il Sole 24 Ore)

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