Il Consiglio di Stato ha confermato la sentenza del Tar che bloccava i protocolli della Regione Lombardia sull’interruzione di gravidanza. Infatti nella regione di Formigoni era stato stabilito, in ossequio alla legge 194, che gli aborti tardivi non si potessero fare oltre il termine di 22 settimane e 3 giorni dal concepimento.
D’altronde la legge 194 lo dice chiaramente: da quando il feto ha la possibilità di vita autonoma, non si può eseguire aborto terapeutico, se non in caso di rischio per la vita della madre. Così recita l’articolo 7 della legge. Che il limite di possibilità di vita autonoma sia di 22 settimane è un fatto risaputo: di norma a questa età la sopravvivenza è del 7%, con livelli ancor più alti riscontrati in Giappone dove sono arrivati al 30% (fonte: Tsuchida Shin'ya, Acta Neonatologica Japonica, 2001).
Dunque su che base se non questi numeri si può rendere “discrezionale” rianimare un bambino nato da aborto? Come decidere se non sui dati dell’evidenza scientifica? L’alternativa è lasciar morire un cittadino italiano (si diventa cittadini al momento del primo respiro) perché l’aborto tardivo non è altro che un parto prematuramente indotto, la cui conseguenza è la nascita di un bimbo cui di solito (tranne eccezioni) batte il cuore, funziona il cervello e il respiro va, seppur stentato e fragile. Siccome di solito il feto a quell’età gestazionale non è abortito perché in fin di vita, ma perché ha malattie che i genitori reputano di non volere in un figlio (o che reputano rendere la vita di “bassa qualità”), spesso nasce vivo, e se i polmoni sono minimamente maturi potrà avere – se prontamente assistito - una chance di sopravvivere.
Per evitare i “problemi italiani” (nascita di un bimbo vivo) in certi Stati USA fino a qualche anno fa si ricorreva ad una via spiccia: l’ “aborto a nascita parziale”: per non rischiare un intervento intrauterino, si faceva uscire parzialmente il feto e – mantenendo la testa dentro l’utero per evitare il primo respiro - si “terminava” con tecniche chirurgiche invasive e cruente. Così il bambino “nasceva morto”. Non ci sembra un’esperienza da imitare.
La legge italiana è meno cinica: tutela chi ha delle chances di farcela, vieta la soppressione del feto in epoca con possibilità di sopravvivenza; sa che ogni bambino vivo (almeno lui) va tutelato. Inoltre ha nel suo impianto una regola d’oro: non impose al momento della sua promulgazione (1978) un’età sopra cui impedire l’aborto, proprio perché era ovvio che la scienza avrebbe fatto passi avanti. Nel 1987 non sopravvivevano bambini sotto le 26 settimane; ora non sopravvivono sotto le 22: la scienza ha guadagnato alla vita un mese di speranza.
Ovviamente nascere a 22-23 settimane non è banale: il rischio di morire è altissimo, e anche alto è quello di restare colpiti da danno fisico per la nascita prematura. Ma questo semmai imporrebbe non di lasciar morire il bambino a rischio di disabilità, ma di evitare un aborto con tutti i mezzi.
Il problema vero è che si sta erodendo in una parte della popolazione generale (feti, bambini, disabili, anziani, evidentemente “di serie B”) il diritto alla vita, che si vorrebbe compensare elargendo diritti di altro genere alla popolazione “di serie A” restante (i cosiddetti “diritti civili”). Il diritto alla vita inizialmente è stato infatti soppresso in epoca fetale, rendendo il bambino non ancora nato un cittadino di serie B; poi si è passati al neonato, la cui rianimazione prima obbligatoria, sta diventando in tanti Stati discrezionale (spesso secondaria al volere dei genitori o alla futura disabilità); contemporaneamente si sta erodendo il diritto alla vita dell’anziano e del disabile cui si stanno aprendo tutte le facilitazioni verso eutanasia e suicidio assistito mentre resta in ripida salita per loro la strada - pur percorribile - della cura di depressione, dolore e ansia. Sentiamo dire che può esser giusto lasciar morire il bimbo nato da aborto perché altrimenti si andrebbe contro il desiderio dei genitori, e questo ci sconvolge dato che pensavamo scomparso da tempo il diritto di vita e morte del pater familias (o madre) sul figlio. Evidentemente la storia si ripete.
Non ci affascina la legge 194, ma chiediamo che almeno venga applicata in toto. Sapere che essa tutela tutti quelli che hanno speranza di farcela e poi sentire che questo umano e basilare dettato può decadere ci rattrista; ma le ragioni contrarie ai protocolli della regione Lombardia sono dure da sostenere alla luce del progresso scientifico, e questo ci dà la certezza che l’interpretazione data alla legge dalla stessa Regione prevarrà, per il buon uso della ragione che la guida.
Carlo Bellieni, Il Sussidiario, 10 Ottobre 2008
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