Di Oscar Giannino
Milano città egoista e leghista, chiusa nel suo particolare e soggetta a una cupola «come quella di Formigoni, Cl e Compagnia delle opere, che non esiste in alcuna altra parte del Paese, nemmeno la mafia a Palermo ha tanto potere». Questa la sintesi, su Repubblica di Milano ieri, della presentazione meneghina del libro “L’uomo che non credeva in Dio”, da parte dell’autore, Eugenio Scalfari. Sono parole e giudizi pesanti come pietre.
Poiché provengo da una cultura per molti versi del tutto coincidente con quella evocata da Scalfari, la cultura che nei decenni trascorsi considerava il meglio di Milano espresso dai cosiddetti “banchieri laici” come Raffaele Mattioli della Comit ed Enrico Cuccia in Mediobanca, sono particolarmente colpito dall’asprezza dei giudizi.
Non li condivido praticamente in nulla. E non si tratta affatto di animosità nei confronti di Scalfari, o verso il ruolo che esercitano ogni giorno nella vita nazionale il giornale di cui è stato fondatore e il gruppo editoriale al quale appartiene. La questione è un’altra, secondo me. Mi viene da dire che si tratta di giudizi che esprimono una sostanziale incapacità di vedere e capire di che cosa si stia parlando. E poiché ho molte difficoltà ad attribuire a Scalfari difetti di comprensione tanto gravi, posso solo pensare che su tutto prevalga un malinteso segno politico, e dico malinteso perché in definitiva pare a me che la condanna scalfariana - è sempre più così in lui, da parecchi anni a questa parte - poggi le sue basi su un anatema di carattere etico. Che però comprende e accomuna fenomeni tra loro totalmente diversi, per il solo fatto che essi rappresenterebbero gambe e braccia di un nemico comunque identitariamente come tale concepito, descritto e combattuto.
Dico “nemico” perché la ripulsa morale di tutto ciò che a Milano, in Lombardia e nel Nord si è espresso da ormai parecchi anni in maniera comunque distinta e distante dalle leadership e dalle politiche locali e nazionali sostenute dal centrosinistra, finisce per alimentare agli occhi dell’alfiere più intemerato di quel centrosinistra una sorta di continuum dell’abnorme e del difforme. Tanto che si tengono insieme come tratti comuni discendenti da un’unica matrice morale - il presunto inaridimento etico avvenuto nella “Milano da bere” craxiana - fenomeni che con quella matrice o c’entrano nulla perché precedenti e separati, o comunque solo successivi nel tempo ma non per questo teleologicamente collegati.
Quattro, sono i condannati a Milano da Scalfari. La buona borghesia milanese, sotto il capo d’imputazione di non esser più capace di solidarietà. I banchieri, dimentichi della tradizione laica. La Lega, naturalmente. Infine la presunta “cricca” formigoniana, Cl e Compagnia delle Opere, che dei tre condannati precedenti rappresenta per molti versi la sintesi di depravazione più seria, in quanto raffigurata come integralista, dedita al malaffare, oligarchica e irriducibile a ogni sana fisiologia della democrazia rappresentativa.
Vediamo di andare per ordine, allora. (...)
Milano città egoista e leghista, chiusa nel suo particolare e soggetta a una cupola «come quella di Formigoni, Cl e Compagnia delle opere, che non esiste in alcuna altra parte del Paese, nemmeno la mafia a Palermo ha tanto potere». Questa la sintesi, su Repubblica di Milano ieri, della presentazione meneghina del libro “L’uomo che non credeva in Dio”, da parte dell’autore, Eugenio Scalfari. Sono parole e giudizi pesanti come pietre.
Poiché provengo da una cultura per molti versi del tutto coincidente con quella evocata da Scalfari, la cultura che nei decenni trascorsi considerava il meglio di Milano espresso dai cosiddetti “banchieri laici” come Raffaele Mattioli della Comit ed Enrico Cuccia in Mediobanca, sono particolarmente colpito dall’asprezza dei giudizi.
Non li condivido praticamente in nulla. E non si tratta affatto di animosità nei confronti di Scalfari, o verso il ruolo che esercitano ogni giorno nella vita nazionale il giornale di cui è stato fondatore e il gruppo editoriale al quale appartiene. La questione è un’altra, secondo me. Mi viene da dire che si tratta di giudizi che esprimono una sostanziale incapacità di vedere e capire di che cosa si stia parlando. E poiché ho molte difficoltà ad attribuire a Scalfari difetti di comprensione tanto gravi, posso solo pensare che su tutto prevalga un malinteso segno politico, e dico malinteso perché in definitiva pare a me che la condanna scalfariana - è sempre più così in lui, da parecchi anni a questa parte - poggi le sue basi su un anatema di carattere etico. Che però comprende e accomuna fenomeni tra loro totalmente diversi, per il solo fatto che essi rappresenterebbero gambe e braccia di un nemico comunque identitariamente come tale concepito, descritto e combattuto.
Dico “nemico” perché la ripulsa morale di tutto ciò che a Milano, in Lombardia e nel Nord si è espresso da ormai parecchi anni in maniera comunque distinta e distante dalle leadership e dalle politiche locali e nazionali sostenute dal centrosinistra, finisce per alimentare agli occhi dell’alfiere più intemerato di quel centrosinistra una sorta di continuum dell’abnorme e del difforme. Tanto che si tengono insieme come tratti comuni discendenti da un’unica matrice morale - il presunto inaridimento etico avvenuto nella “Milano da bere” craxiana - fenomeni che con quella matrice o c’entrano nulla perché precedenti e separati, o comunque solo successivi nel tempo ma non per questo teleologicamente collegati.
Quattro, sono i condannati a Milano da Scalfari. La buona borghesia milanese, sotto il capo d’imputazione di non esser più capace di solidarietà. I banchieri, dimentichi della tradizione laica. La Lega, naturalmente. Infine la presunta “cricca” formigoniana, Cl e Compagnia delle Opere, che dei tre condannati precedenti rappresenta per molti versi la sintesi di depravazione più seria, in quanto raffigurata come integralista, dedita al malaffare, oligarchica e irriducibile a ogni sana fisiologia della democrazia rappresentativa.
Vediamo di andare per ordine, allora. (...)
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