Il lager dei blue-jeans
C’era una volta il West…
Oggi i jeans delle maggiori brand mondiali arrivano dal Far East e sono frutto di condizioni di lavoro proibitive.
La fabbrica Huang a Zhonghan, al centro di un esclusivo servizio del 34enne fotografo Justin Jin, è un lager impregnato di polveri e vapori tossici, ma senza traccia di diritti sindacali, dove gli operai lavorano 18 ore al giorno per un salario mensile equivalente a 150 euro.
Pochi soldi che sono il prezzo per soddisfare la sete di moda a basso costo dell’Occidente come, in altre aziende della città, di calzature, fuochi d’artificio, giocattoli, fiori sintetici…
Una miseria che in Cina rappresenta il necessario e che a molti è comunque negato, pure in questa provincia del Guangdong, da sempre necessario retroterra di Hong Kong. Ma anche, dal 1979, al centro dell’esperimento di sviluppo economico avviato da Deng Xiaoping che ha permesso il decollo industriale di aree selezionate del paese e l’apertura di un divario fra Cine a più velocità che va approfondendosi.
Parte integrante del successo cinese, l’uso massiccio, poco regolamentato e per molti aspetti spregiudicato delle risorse umane si avvantaggia di una realtà rurale in arretramento e dei molti milioni di cinesi che, senza documenti e nessuna tutela, vagano da una città all’altra in cerca di opportunità, testimoni insieme del fallimento della politica del figlio unico e della mancanza di diffuse opportunità fuori dalle «zone di sviluppo speciale».
Dei dieci milioni di bambini che secondo gli osservatori internazionali ogni giorno mancano all’appello nelle aule scolastiche dell’immenso paese orientale, la metà sono impiegati in manifatture di ogni tipo e dimensione e se in alcune delle province più arretrate i minori costituiscono addirittura il 20% della forza-lavoro, nel popoloso Sichuan un accesso al mondo del lavoro sarebbe garantito all’85% dei bambini e dei giovani in cambio di orari massacranti e stipendi che raramente superano i 20 centesimi di euro l’ora.
L’Organizzazione mondiale del lavoro (Oml) ha rilevato come persino la sterminata produzione di capi di vestiario, accessori e gadget che ha accompagnato il percorso della fiaccola verso Pechino ha visto impegnata per 12-13 ore al giorno un’ampia manodopera infantile, non solo sottopagata ma anche senza alcuna prospettiva una volta chiusi i cancelli olimpici.
Firmataria di diverse Convenzioni internazionali, a partire da quella Onu n. 182 che proibisce attività lavorative che siano pericolose o interferiscano con l’educazione dei bambini, la Cina non ha mai ratificato la Convenzione Oml n. 138, che definisce l’età minima di accesso al lavoro.
Tuttavia, l’adesione formale non solo è sovente aggirata in nome dello sviluppo Made in China, ma addirittura negata quando ad avviare a un lavoro con poche o nessuna tutela sono le scuole o le organizzazioni di partito che gestiscono i programmi di 'studio-lavoro': secondo i dati di Human Rights Watch, nel 2004 hanno coinvolto 400mila studenti tra i 12 e i 16 anni di età per una produzione dal valore stimato di circa 1 miliardo di euro.
Avvenire
sabato 4 ottobre 2008
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