giovedì 19 febbraio 2009

SCENARIO/ 1. Polito: Veltroni è morto di berlusconismo


INT. Antonio Polito
mercoledì 18 febbraio 2009

Veltroni è stato alla fine irremovibile. «Se io sono il problema, allora me ne vado» ha detto senza mezzi termini al quartier generale del partito, riunitosi ieri dopo la pesante sconfitta in Sardegna. E l’esame di coscienza dopo il voto isolano si è così trasformato in una bufera che manda definitivamente all’aria un progetto nato solo un anno fa.
Ora dunque per il centrosinistra non c’è solo un partito da ricostruire, ma un’intera strategia politica, e il modo stesso di concepire l’opposizione e la possibile alternativa al governo in carica. Un’operazione lunga e complessa che, secondo il direttore del Riformista Antonio Polito, non può che passare attraverso una faticosa guerra di trincea, durante la quale ripensare alla strategia delle alleanze e, soprattutto, a come recuperare il contatto con il Paese reale.

Direttore, sulla convulsa giornata politica di ieri, sfociata nelle dimissioni di Veltroni, ha pesato solo la sconfitta in Sardegna, o ha giocato un ruolo anche la vittoria dell’outsider Renzi (osteggiato dal gruppo dirigente del Pd) alle primarie di Firenze?

La vittoria di Renzi Veltroni si preparava già a presentarla come una vittoria del sistema delle primarie: anche se il suo candidato usciva sconfitto, ci si poteva pur sempre aggrappare alla bontà del metodo. Invece la sconfitta in Sardegna è stata una dèbacle politica di dimensioni enormi, con un distacco tra la coalizione politica di centrosinistra e quella di centrodestra intorno ai diciotto punti percentuali. Le elezioni politiche e due elezioni regionali hanno dimostrato che il Partito democratico non è competitivo; e questo avviene sia quando ci si presenta quasi vergognandosi del governo precedente (come nel caso dell’Abruzzo), sia quando lo si esalta (come in Sardegna).

Al di là del pesante dato numerico, qual è stato l’elemento tanto grave di questa sconfitta, da giustificare le dimissioni del leader?

Il dato che deve far riflettere più di tutti è che ci troviamo in una situazione difficile per il Paese: non solo c’è una grave crisi economica, ma c’è anche una crisi di ordine pubblico, legata ai fatti di delinquenza dell’ultimo periodo. Al colmo di tutto questo, il governo si rafforza. Ebbene, questo dal punto di vista politologico è una assoluta anomalia, perché è noto che le situazioni di crisi dovrebbero spingere l’elettorato verso l’opposizione, e non il contrario. Questo significa che siamo di fronte a un’opposizione che, come direbbero gli inglesi, non è “electable”, non è eleggibile.

Le alternative alla leadership di Veltroni, come ad esempio la strategia di D’Alema che addirittura rilancia l’alleanza con Rifondazione, escono anch’esse sconfitte da questa situazione, o sono piuttosto rafforzate?

Quello che è risultato chiarissimo dalle elezioni di Abruzzo e Sardegna è che se la coalizione tutta insieme non ce la fa, figurarsi il Pd da solo. L’ipotesi dell’autosufficienza del Pd è uscita chiaramente sconfitta da questo voto, dato che anche con alleanze più larghe non riesce non dico a insidiare, ma nemmeno ad avvicinare l’avversario. Ora è chiaro che c’è bisogno di ricostruire un sistema di alleanze, e che tali alleanze difficilmente possono escludere l’Udc (in Sardegna si è visto che quando l’Udc va col centrodestra non c’è partita). Quindi è la stessa base del progetto veltroniano – l’autosufficienza del Pd – che è stata stravolta da questo risultato.

L’ipotesi di aprire all’Udc rilancia la strategia di Rutelli?

Innanzitutto bisogna considerare che la possibilità di un’apertura all’Udc dipende in primo luogo dall’Udc stesso, e non dal Pd. L’impressione invece è che il partito di Casini si trovi molto bene nella condizione attuale, dove può scegliere alleanze variabili a seconda delle circostanze politiche. C’è poi da considerare un secondo aspetto: l’Udc raccoglie molti voti dai cattolici delusi dall’esperienza del Partito democratico, e quindi al momento non ha alcuna convenienza in un’alleanza a sinistra. Questi sono problemi che stanno prima di ogni considerazione sulle strategie centriste del Pd.

Uno sguardo sulla maggioranza: in che modo il voto in Sardegna rafforza il centrodestra?

Il voto rafforza molto la figura di Berlusconi. Il presidente del Consiglio, infatti, ha vissuto in queste settimane i primi segni di tensione e di logoramento all’interno della maggioranza, nei rapporti con Fini e la Lega. Una sua vittoria così personale, con un candidato scelto da lui e una campagna elettorale fatta solo da lui, certamente rinsalda la maggioranza di centrodestra e la rimette un po’ in riga sotto la leadership berlusconiana.

Cosa dovrebbe fare allora il centrosinistra per scalfire il potere sempre più solido di Berlusconi?

Il Pd deve prepararsi secondo me a una lunga guerra di posizione, una guerra di trincea. L’ipotesi dello sfondamento basata sull’imitazione del partito personale berlusconiano è fallita. Il progetto stesso è fallito; e in ogni caso, se anche eventualmente si fosse tentati di riprovare la via leaderistica, non sarebbe certo Veltroni a poterla incarnare di nuovo. Il Pd deve allora prepararsi a ricostruire le sue forze, e a ricostruire soprattutto il suo radicamento nella società (credo infatti che ora sia un partito molto lontano da tutti i luoghi dove gli italiani lavorano). E poi costruire un sistema di alleanze politiche che renda credibile la sua alternativa di governo. Chi va a votare deve poter credere nella possibilità, anche numerica, che la forza politica cui dà il proprio voto possa essere maggioranza in Parlamento.

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