domenica 21 settembre 2008

La viltà che lega una rana crocifissa al silenzio sulle persecuzioni dei cristiani


Finora non pare che sia servita la denuncia di Angelo Panebianco né l’iniziativa promossa dalla Fondazione Liberal per risvegliare l’attenzione sullo scandalo delle persecuzioni e dei massacri di cristiani che si svolgono da ogni parte del mondo. Troppi, mentre sono pronti a sollevarsi strepitando di razzismo genocida quando si propone di prendere le impronte ai bambini dei campi nomadi, voltano lo sguardo dall’altra parte di fronte ai massacri concreti di cristiani. Una delle cause principali è stata identificata da Angelo Panebianco nell’«atteggiamento farisaico secondo il quale non conviene parlare troppo delle persecuzioni dei cristiani se non si vuole alimentare lo “scontro di civiltà”. Come se ignorare il fatto che nel mondo vari gruppi di fanatici usino la loro religione (musulmana, indù o altro) per ammazzarsi a vicenda e per ammazzare cristiani ci convenisse». Il “politicamente corretto” ipocrita e suicida porta a tacere e persino a giustificare ogni crimine compiuto dall’“altro” e a considerare il massacro di cristiani come un normale prezzo da pagare per le colpe della civiltà occidentale. Questo atteggiamento è testimoniato da tanti fatti tra cui va sottolineata l’asimmetria che porta a condannare le vignette danesi su Maometto come un’efferata provocazione che avrebbe giustificato lo scatenamento di un’autentica guerra di religione da parte di gruppi fanatici musulmani di mezzo mondo, mentre si giustificano e difendono a spada tratta le “opere d’arte” che rappresentano una rana crocefissa o un’erezione di Gesù in croce. Nel primo caso si deplora l’offesa a una figura sacra per i musulmani, di fronte alla quale la libertà di espressione deve inchinarsi e sapersi limitare. Nel secondo caso, il simbolo sacro e il valore che esso ha per i cattolici deve inchinarsi di fronte alla libertà di espressione e all’assoluta indipendenza dell’“arte” che non può limitarsi di fronte a nulla e nessuno, anche se nei fatti questo “nulla e nessuno” ha nomi e cognomi ben precisi: è lecito fare strame della croce o paragonare la verga di Mosé a un fallo ma tutti debbono inginocchiarsi di fronte al sacro turbante di Maometto.Quel che è tragicamente penoso in questa faccenda è il richiamo alla libertà “artistica” e che professori universitari di storia dell’arte o conservatori di musei parlino con sussiego di opere d’“arte” è un segno dello sfacelo della nostra cultura, del modo in cui vengono svenduti senza dignità le nozioni più elementari in nome della cupidigia di asservimento all’“altro”. Occorrerebbe ricordare a questi solerti “intellettuali” che un oggetto per essere definito un’opera d’arte deve soddisfare alcune caratteristiche minime, tra cui la messa in opera, per la sua produzione, di una maestrìa non alla portata di chiunque e una finalità espressiva che miri a trasmettere significati universali. Non basta prendere una tazza di gabinetto, una cacca, disegnare o scolpire un fallo in erezione – secondo la migliore tradizione della grafica da cesso pubblico – mettervi sotto una scritta ermetica e riuscire a esporlo in una mostra perché realizzare un’opera d’“arte”. Perché, in tal caso, l’unica “arte” che viene messa in atto è quella dell’astuzia mediatica e dell’abilità nell’intrallazzare per inserirsi nei circuiti espositivi. Non si sa se ridere o piangere sentendo uno di questi “intellettuali” paragonare la rana di Bolzano alla Cappella Sistina di Michelangelo. Questa cupidigia di asservimento che fa strame dell’arte in nome di una cultura che non merita più di essere chiamata tale è uno dei terreni su cui si alimenta l’indifferenza per le stragi e i massacri dei cristiani.(Tempi, 17 settembre 2008) http://gisrael.blogspot.com
Giorgio Israel, Il Legno Storto quotidiano, 18 Settembre 2008.

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